“Sa come si chiama questo? Delirio di onnipotenza.”
Le parole dell’uomo (un medico? O forse uno psicologo) trovano tutto le spazio che vogliono: le ha deposte così, in mezzo alla stanza, una a una, come se disponesse steli di gerbera in un grande vaso di vetro. La donna cui il messaggio è diretto si appoggia all’inconsistenza di una battuta che non le germoglia di bocca. Le altre donne, che le siedono accanto, guardano il fondo del vaso.
È una scena di “Genitori” di Alberto Fasulo. Un documentario in cui, per un’ora e poco più vengono passate in rassegna le storie (e i drammi) di un gruppo di genitori di figli “speciali”, che da vent’anni partecipano a un gruppo di mutuo aiuto. Il mio sabato sera scorso, approfittando del fatto che Dorothea era con il papà, l’ho santificato così. Mi accompagnava Rosaria. L’avevo avvisata che si trattava di un tema specifico, con un peso specifico rilevante, lei è voluta venire ugualmente, rassicurandomi: “Certi argomenti dovrebbero essere materia di considerazione da parte di tutti”.
Qui non m’interessa tanto parlare del documentario, per molti versi interessante, per altri discutibile, ma di questo delirio di onnipotenza, così ben delineato e scandito.
Il mattino di quello stesso giorno, sempre a Rosaria, avevo dichiarato il mio entusiasmo per una svolta che avevo intravisto nella scrittura delle mie vicende con Dorothea: raccontare dal punto di vista della bambina ed esplorare quale poteva essere l’origine dei suoi comportamenti piuttosto che il loro ripercuotersi su di me. A prescindere dal fatto che non avessi una preparazione scientifica in materia, da qualsiasi motivazione interpretativa a livello psicologico, immaginare una storia mettendomi nei panni di una bambina come Dorothea. Avrei preso lo spunto dalle piccole cose di tutti giorni, ad esempio dal tentativo di mimetizzarsi con le coperte alla mattina, dalle difficoltà intermittenti nella deambulazione. E ho trascorso le successive tre ore in tentativi di imbastire una narrazione che però risultava sempre artificiosa, era come addentrarsi un labirinto di specchi, ovunque mi girassi avevo sempre di fronte la mia immagine. Poteva sì, essere un approccio interessante, ma applicato a un bambino che in realtà rimandava a mia figlia mi poneva di fronte a una sorta di conflitto di interessi. Lascio la sedia, e fisso i titoli in costa nella libreria: ma quanto ancora devo andare avanti con questo resoconto? La necessità di variazione risponde a un fatto oggettivo: sono arrivata al capolinea.
Qualche ora più tardi sono davanti alla messa in piega della signora ultracinquantenne, che ha appena finito di lamentare di come, in tutti gli anni della malattia della figlia, non aveva fatto altro che pensare alle cure da rivolgerle. E lei, in quanto madre, si era a tal punto identificata nel ruolo di assistente da perdere il contatto con se stessa e con gli altri. Però, insiste, se non la seguivo io?
Potevi chiedere aiuto, incalzano le altre, potevi coinvolgere qualcun altro. La donna scuote la testa.
Io. Io. Io. Quante volte ho scritto la parola Io in questi anni? E dopo aver messo insieme le pagine cui ho affidato tanti piccoli racconti, rileggendo il tutto, mi sono trovata di fronte al singhiozzo del mio ego. Di molte cose ho scritto, di altre ho taciuto. Cose spinose, non facili da ammettere a se stessi, figuriamoci andarle a sciorinare sul balcone che dà in strada, come lenzuola con grossi buchi e pieni di macchie che non vengono più via.
Alla fine il delirio è venuto fuori, da solo.
Non ha senso chiedersi se avrebbe potuto essere diversamente. Che cosa sia intervenuto a rendermi così: il carattere, la storia personale, il modo di agire (e reagire) del compagno che mi ero scelta. Ho sentito dire che ansia, mania del controllo, della gestione della sicurezza, della previdenza con l’utilizzo di tremila occhi sono comuni in molte persone, genitori e non. Forse il fatto che Dorothea sia com’è ha amplificato in me come madre queste caratteristiche. Però adesso che ce l’ho bello e nitido di fronte, il quadro, non lo posso più ignorare.
Io. Io. Io. Da dove nasce questa rivendicazione nel genitore “speciale”? La paura di scomparire, perché di fronte alle necessità insorte non si intravede più spazio per i propri interessi? Perché tutti i sogni di colpo appaiono annichiliti e allora per reazione ci si identifica con un ruolo salvifico, tutelante, in modo da non perdere un’identità, ma trovarne una encomiabile nello “spirito di sacrificio” ? Oppure alla base c’è il senso di colpa di avere messo al mondo un figlio che avrà difficoltà a percorrere la sua strada? Qualcuno potrebbe dire che è grazie all’amore. L’amore, certo, l’amore assoluto. Quello potente, che esclude tutto e tutti. Ma a renderlo assoluto, l’amore, è la paura della perdita, e la sfiducia: si iperbolizza la propria tenacia per la paura di non riuscire a tenere stretto quello che abbiamo tra le braccia.
Il nodo più grosso di tutti è arrivato al pettine e non si può districare.
Lo avvertivo che si sarebbe presentato, e solo allora ci sarebbe stata la fine. Perché “Se non hai dato tutto non hai dato ancor”.
E con questo penso di avere compiuto la narrazione, dal mio punto di vista. Prendo commiato da chi ha avuto la pazienza e la curiosità di leggere.
Il sipario resta, ma non vado via, provo solo a mettermi in disparte.
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L’illustrazione è di Shiori Matsumoto
Wabi, prima di essere un genitore speciale, sei una persona dal mio punto di vista (che ti conosco dalla tua scrittura) veramente in gamba. Leggerti è davvero un grande piacere (in qualunque forma questo succederà, continuerò a farlo).
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grazie Daria! un sacco di baci!
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ricordati di segnalarmi i tuoi nuovi progetti! ti abbraccio
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ma certamente! sarà fatto! intanto “ci si vede” anche su fb… un bacio grande a te e alle tue demoiselles:-)
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