
The Hinding Box sembrerebbe il titolo di una nuova serie di Netflix e invece è qui, di fianco a me. Concreta e apparentemente innocua. Un pezzo da arredamento piuttosto anonimo che un paio di anni fa ho sistemato vicino alla porta con l’intenzione di farne un appoggia sedere quando ci infiliamo/sfiliamo le scarpe: una scatola di cartone rigido, rosso carminio, ricevuta in regalo da mia madre a Natale. Ci avevo subito ficcato dentro tutti i quadrotti con i numeri e le lettere che incastrandosi formano un tappeto morbido, cosa tipica dei bambini dell’asilo. Altro regalo di Natale, tanto ingombrante quanto snobbato da Dorothea.
Scatola e quadrotti erano dunque l’una per gli altri. Accoppiati sono diventati come inesistenti, come per un magheggio di Silvan. Ogni tanto mi accorgo dell’involucro, ma solo quando lo sposto per passare l’aspirapolvere.
Ieri ho trovato il coperchio mezzo sollevato, faccio per sistemarlo, ma non si chiude. Lo alzo e mi si apre il vaso di pandora: tutto quello che misteriosamente era scomparso in questi tre mesi di lockdown si trova lì dentro.
Faccio l’inventario della scoperta, come un archeologo che ripercorre la linea del tempo in base alle stratificazioni: fermagli ed elastici per capelli, calze e calzine, biro, mollette per il bucato, una presina, il vestito di una bambola, una sciarpa di lana, un guanto persino un reggiseno. Il tutto tra pezzi di pagine di un libro illustrato, scontrini, una foto ridotta in striscioline. Come potevo immaginare che dentro ci stesse stipato un vero e proprio microcosmo del nostro disordine? E adesso mi sovviene di Dorothea che ci girellava attorno, certo era lesta a infilarci dentro le cose, forse non si voleva far vedere?
Non che il fenomeno sia nuovo, mi è già capitato di trovare una sua felpa o una maglietta appallottolata nel ripiano più basso di un armadio. Non lo fa sistematicamente, (di roba in giro ce n’è sempre tantissima) solo, credo, con quello che lei inquadra come fuori posto e che deve sparire dalla sua vista. Alcune cose in particolare la inquietano, come la composizione e il colore di certi tessuti. E qualsiasi cosa abbia frange o fili pendenti, che vanno assolutamente rimossi. Così è stato per uno scialle che amavo tenere in casa, dopo la procedura del “taglio” non ho più trovato la parte sacrificata. Ho pensato di aver già buttato via le frange, sovrappensiero. E invece no: qualche settimana più tardi eccole che affiorano dal cassetto delle calze.
Il fatto è che Dorothea, di solito un po’ indolente, in questi frangenti diventa velocissima, io non la vedo nemmeno entrare in azione, chissà se nasconde le cose anche programmaticamente, per non farmele trovare. Me lo chiedo ogni volta che cerco l’attivatore che deve portare in bocca la notte per chiudere il morso e allargare il palato. Lei preferirebbe addormentarsi senza quel pezzo di silicone tra le arcate dei denti e alla sera mi guarda speranzosa mentre glielo porgo, come in attesa di una dispensa, in via del tutto eccezionale. Al mattino, quando rifaccio il letto, l’attivatore non è mai nei paraggi, devo spostare mobili e frugar tra i giochi. A volte passano anche due o tre giorni prima che venga fuori.
Purtroppo, una volta che nasconde le cose Dorothea non le sa ritrovare. Non vede nemmeno quello che ha praticamente sotto il naso. Si aggira per casa chiedendo, con voce drammatica, dove sia questo o quell’oggetto. Si tratta di una carica drammatica “retorica”, sembra non credere lei stessa nel dramma. L’oggetto in questione è di solito un elemento su cui, a turno, concentra la sua affettività, il suo bisogno di prestare una cura speciale. Può essere un pupazzo, come un piccolo oggetto apparentemente insignificante: un frutto di plastica, una carta, o un magnete a forma di numero. Se lo gira e rigira tra le mani, lo appoggia alle labbra o lo succhia, gli affida una giaculatoria composta di pezzi di frasi fatte. Quanto più piccolo l’oggetto, tanto più grande è la mia rovina nel momento in cui l’oggetto stesso, se perduto, viene reclamato. A volte mi piacerebbe accedere a una simulazione del campo visivo di Dorothea per capire che cosa le impedisce di riconoscere quel che ha di fatto sotto gli occhi, capire qual è l’inghippo tra il senso della vista e la elaborazione del dato. Forse in realtà lei vede e connette benissimo, ma il fatto è che la situazione reale esula dal suo interesse, non coincide con un quadro che lei ha nella sua mente, come per una dissociazione tra realtà e proiezione interna.
In questo Dorothea ed io ci assomigliamo. Certe cose non le voglio proprio vedere, altre le nascondo a me stessa, anche quando le ho notate con la coda dell’occhio. Quindi non posso che essere indulgente con lei, e trarre la seguente lezione: a forza di nascondere le cose nello stesso posto, queste vengono fuori da sole.
Se non vuoi vederle o trovarle più cerca tanti nascondigli diversi.