Basta poco a restare umani

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Oggi, tramite i giri strani di Facebook, sono venuta a sapere di una signora che avrebbe commentato in modo sarcastico l’ultima tragedia in mare. La prima cosa che ho pensato è che si trattasse di una cosa “costruita”. Come possono venire in mente certe battute, sconce anche solo rispetto a una situazione ipotetica, figuriamoci a un fatto davvero accaduto?

Ma le battute sconce, ahimé prolificano tra social media e spazi di condivisione delle opinioni aperte al pubblico, anche in fondo ai commenti aperti sui giornali online. Come è possibile questo decadere della decenza?

Io non sono una psicologa, ma un’idea me la sono fatta.

È un po’ come quando si strombazza e bestemmia agli altri, nel chiuso dell’automobile. In auto si è dentro una armatura, ci si sente avulsi da tutto, auto-nomi, indipendenti, e anche posseduti da una aggressività che è poi carica di frustrazione. In auto è facile dare del cretino, quando siamo gentili, a questo o quello. Il fatto è che guidare ci fa paura. È una cosa cui ci abituiamo con gli anni, ma dentro di noi, a livello animale, sentiamo che la velocità che ci porta è dieci, venti volte superiore a quella che il nostro corpo, al massimo delle sue prestazioni, saprebbe tenere. E anche i nostri riflessi, naturalmente, vengono messi a dura prova: cerchiamo di gestire qualcosa che è al di sopra di noi. Potremmo andare lenti e invece andiamo più veloce, inebriati da qualcosa che è un’aspirazione: essere come non siamo, e cioè scattanti, ultra-rapidi.

Internet e i social network ci fanno precipitare in una situazione simile: essere ubiqui, allargati e onniscienti. Onnipotenti. Facebook ha aggiunto la ciliegina sulla torta: consorziati in un’unica grande famiglia. Appagati dalla stima, come piccoli reucci. Felici, perché nello scatto che fissa il sorriso del selfie vogliamo che gli altri pensino che lo siamo. Ci basta l’illusione che gli altri lo pensino. Ci specchiamo nei like. Automi, preda di un riflesso pavloviano. De-nucleati, presenti ovunque e mai davvero in nessun luogo. È proprio come la velocità dell’auto, una cosa che non sappiamo governare. Perché siamo fatti di un corpo creato per stare in un certo spazio vitale, e tenere l’attenzione su un numero limitato di elementi, con la finalità di garantire la sopravvivenza a noi e a quelli con cui condiviamo lo spazio attiguo. E invece ci ingozziamo di pillole di questo e quello e crediamo di capire il giro del fumo. E vogliamo giudicare. Indugiamo su questa o quella vignetta, su questa o quella sequenza tratta della vita degli altri e ci sembrano sempre tutti più sorridenti, felici e soddisfatti di noi.

Ci creiamo dei profili dove allarghiamo la cerchia il più delle volte solo a quelli che la pensano come noi o a quelle congreghe che sono in sintonia con le proprie necessità. È il selfie più grande, quello che ci rispecchia. La cricca da cui ci aspettiamo il battimani.

Gli algoritmi fanno il resto, proponendoci quello che secondo loro ci piace, su Internet come ai canali tv on demand.

Erigiamo a poco a poco una barriera spessa come una muraglia, in cui siamo stipati di tutto quello che fa al caso nostro. Uscirne è dura. Soprattutto quando ti scontri con la realtà vera, che non è fatta a tua immagine e rassomiglianza e non è nemmno un reality, né l’ultima serie apocalittica di Netflix.

Io credo che la signora che ha scritto la battuta sconcia se si fosse trovata sulla riva e avesse assistito a quello che succedeva non si sarebbe messa a ridere. Facile fare una battuta davanti alla claque dello schermo. Sono certa che la sua parte più interna non gliel’avrebbe permesso di festeggiare, davanti a dei suoi simili che affogavano. La pancia, il cervello che sta in mezzo, gliel’avrebbe impedito.

Tutta la fuffa, in quelle circostanze, va a farsi benedire. Ma forse sono una idealista?

Chiaro, questo non scagiona la signora, perché ciascuno è responsabile dei propri atti. E comunque, se lei ha fatto una battuta ignobile, perché darle così tanto spazio, anche solo con la indignazione? Una volta, al mio paesello di centocinquanta anime, chi le sparava grosse suscitava commiserazione e una scrollata di spalle. Adesso sembra che la scemenza sia la farcitura gustosa della pochezza di spitito.

Secondo me, se vogliano salvarci, dobbiamo cambiare le regole dei social e imporre più limitazioni e controlli, e sanzioni. Va bene la libertà di espressione, ma se lede la dignità degli altri, allora va ricondotta entro i limiti delle relazioni civili.

Non la vedo tuttavia molto semplice soprattutto perché i poteri che giocano a segnare le sorti collettive faranno di tutto per mantenere così com’è uno strumento di gestione delle piccole menti, che ambiscono a rimanere tali. L’antidoto è uno: cercare di informarsi. Ricorrere a più fonti, non accontentarsi del sentito dire e prima di mettere like dirsi: “mi riflette?”, “mi rappresenta?”, “ma sarà vero”?

Avete presente quella scena potentissima di Matrix, dove vediamo Neo nel sarcofago, alimentato da un tubo, insieme a milioni di altre crisalidi? Vogliamo fare questa fine?

Mi auguro che un giorno non lontano si arrivi a leggere di questa droga di Facebook e degli algoritmi come quando, oggi, di fronte a certa letteratura del secolo scorso, ci si chiede: ma come facevano a bere e fumare in continuazione?

 

2 Comments

  1. La tua capacità di analisi e sempre sorprendente ed illuminate per me. Il tuo uso delle parole è come una pallette di colori con cui dare le più belle sfumature.

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