Non siamo soli

DSC_0026.jpgIn questi giorni si è tornato a parlare di “Ius soli”. Significa “diritto del suolo”, ma a me, per come suona, evoca immagini e pensieri d’altro genere.

“Ius soli”, un’immagine. Innanzitutto lo associo a qualcuno che sta da solo, o magari non propriamente da solo, ma fuori, in attesa. Come le tante mamme musulmane che ogni mattina incontro davanti alla scuola. Si attardano a parlare, dopo aver accompagnato i figli. Di figli, al seguito, ne hanno altri più piccoli, che tengono per mano o sul passeggino. Portano i capelli coperti dal foulard, ma hanno jeans e scarpe da ginnastica. Alcune di loro sono particolarmente belle, per il taglio degli occhi, il sorriso e la giovane età. Parlano arabo tra di loro, ma al mio passaggio mi salutano, luminose. Di che cosa staranno parlando? Di case, immagino. Il trovare una casa giusta, abbastanza grande, è una delle questioni più pressanti. Di fatto è il primo argomento cui mi accenna ogni volta Rasha, che tra di loro spicca per operosità, intraprendenza, e carisma. Negli ultimi due anni la sua famiglia si è spostata almeno tre volte; adesso, grazie a Dio, come dice lei, hanno trovato quella giusta, adatta a cinque persone e distante da scuola solo pochi minuti. Per un anno hanno dovuto attraversare tutta Milano, ogni mattina, mettendosi in auto alle sette e mezza. Ma era importante che i figli continuassero a frequentare gli amici che si erano fatti in Bovisa.

Rasha è la madre di Mohammed, che è in classe con Dorothea, e di altri due ragazzini più grandi, quindi possiede maggior esperienza rispetto alle nuove arrivate. Da tutti noi, madri e insegnanti comprese, è considerata un po’ una ambasciatrice. Fa sempre da tramite (e da interprete) tra la scuola e le famiglie in cui la moglie non sa ancora ben destreggiarsi con l’italiano. Al suo paese era insegnante di scuola elementare, vorrebbe tanto poter lavorare con questa qualifica anche in Italia, per quello si sta impegnando a imparare la nostra lingua frequentando anche dei corsi. Secondo me lo parla già molto bene, solo con un po’ di accento, ma lei sente che non è ancora abbastanza. Ogni volta che vado a scuola per portare e prendere Dorothea per le terapie, la trovo già lì, in attesa dell’inizio delle lezioni di italiano o per prendere il più grande, che da qualche tempo è in riabilitazione sulla sedia a rotelle. Mi capita di incontrarla spesso anche fuori dalla scuola, sempre di corsa con borse, borsoni. Sempre trafelata. Non si ferma mai, nemmeno quando ha la febbre.

Rasha ha sempre l’ansia di versare subito i soldi chiesti dalla scuola per i corsi, o per le gite. A volte mi incontra per strada e mi chiede: “Ti ho già dato tutto?”. E a sua volta si dà da fare perché anche le altre madri diano il loro contributo. Non vuole che si pensi male di loro, o si facciano illazioni sul fatto che sarebbero qui solo per prendere e “scroccare”. Purtroppo le è toccato di sentirselo dire.

“Ius soli”, un pensiero. I nostri figli sarebbero soli, veramente, non fosse per questi bambini che arrivano da tanti altri paesi e portano la loro cultura, la loro energia, ma, innanzitutto, la loro presenza. Nella classe di Dorothea, che rispecchia la situazione di tutta la scuola, solo cinque su venti sono italiani. In alcuni casi i bambini di origine straniera sono nati a Milano, in altri provengono direttamente dai loro paesi e entrano in classe senza sapere l’italiano, ma le maestre si adoperano in ogni modo per colmare questo divario che rende difficile sì l’apprendimento, non certo la socializzazione. L’anno scorso uno di loro, Reda, che era appena arrivato da un paese lontano, è diventato il beniamino di mia figlia, che se lo coccolava con affetto. Lui la lasciava fare, prendeva tutte le carezze di quella bambina “speciale”, e ricambiava (e ricambia tuttora) con il suo abbraccio.

Questi bambini, quando li vedo tutti insieme, mi restituiscono una sensazione che ho ricevuto dai film dell’Italia post bellica: pochi fronzoli, pochi giocattoli, ma tanta immaginazione, vitalità, sensibilità. Sono entusiasti di tutto, e hanno una gran voglia di aprirsi al mondo. Qualche settimana fa ho avuto la fortuna di assistere a una lezione aperta di “danze popolari” tenuta nella classe di Dorothea. Bambini sudamericani, cinesi e africani che ballavano in cerchio le melodie del nostro repertorio. Si muovevano con naturalezza, seguendo le indicazioni dell’insegnante. Per molti di loro quelle musiche dovevano suonare non meno particolari dei bambini nati da genitori italiani, in un’epoca in cui le tiritere su Crapapelata non vanno più tanto di moda. Forse fa più “strano” a noi non più giovanissimi vedere uno splendido ragazzino dalla pelle di ebano che salta cantando “Pirulin, pirulin”. E con lo strano, non intendo “straniero”, piuttosto uno straniamento. Lo straniamento che è il principio su cui si basa l’arte. È l’arte non è la quintessenza della vita?

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La foto in apertura l’ho presa da http://centroastalli.it/io-sono-musulmano-ti-racconto-di/

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