“Amami finché il mio cuore si fermerà / Amami finché non ci sarò più / Occhi che illuminano, che guardano attraverso di te”
È la preghiera-rivelazione con cui si chiude una delle canzoni più belle (e famose) di David Byrne, datata 1983: “This must be the place”, Il posto dev’essere questo. L’autore l’aveva definita anche una “un’ingenua melodia”, ma il messaggio che esprime è potente: ritrovare in se stessi la propria dimora.
Tutto comincia da qui:
“Mi sento stordito e consumato, con un cuore debole / Così immagino che dovrei divertirmi”
Qualche anno fa Byrne ha dichiarato: “Penso di essere stato un Asperger, ma di esserne venuto fuori”. Usa l’espressione “I grew out of it”, letteralmente “ne sono cresciuto fuori” che in inglese vale anche per un vestito che, con la crescita, non va più bene.
Mi piace questa metafora dell’autismo come un limite che può essere scavalcato da qualcosa di ancora più forte: l’esigenza di esprimere e comunicare.
Byrne oggi ha sessantacinque anni e tiene conferenze in cui parla dei motivi per cui vale la pena essere felici. La sua è una prospettiva per nulla scontata.
Agli esordi appariva semplicemente “strano”, negli anni settanta l’autismo non era un argomento frequentato come oggi, ma lui faceva parte di una band punk e quindi questa stranezza non stonava, anzi, aggiungeva fascino. Tina Weymouth, parlando per lui in pubblico lo definiva come “organicamente timido”. C’è un video in cui lui stesso, segaligno, tirato in volto, descrive che cosa gli succede quando deve salire sul palco: un’autentica sofferenza, con tremore, sudorazione a litri, corse in bagno “per cagare” come ammette, senza mezzi termini.
Qualcuno gli domanda: ma perché hai scelto di fare musica piuttosto che continuare a fare sculture? E lui: “Perché con la musica si arriva a più gente”. E intanto continua a guardare fuori camera, nel lato opposto rispetto all’intervistatore, gli occhi sbarrati come quelli di un animale braccato.
“Immagino che questo debba essere il posto / Sono io che ho trovato te / O tu hai trovato me?”
Ogni volta che saliva sul palco doveva prima affrontare una battaglia. Quel tono di voce esagerato, quei movimenti sincopati, ai miei occhi adesso sono rivelatori. Lui è lo sguardo alieno che vedeva e vede le cose da un punto di vista esterno, ma allo stesso tempo stando all’interno. E usa parole che tutti conoscono ma mettendole insieme compone immagini diverse da come siamo abituati a percepire la realtà.
“A differenza di tutti quei generi di persone / tu hai una faccia con una prospettiva”
Si dice, a posteriori, che Einstein fosse Asperger, e anche Mozart. Ultimamente ho sentito dire che anche Van Gogh lo sarebbe stato. Asperger viene associato a genio, magari incompreso. Byrne con la pop-culture è riuscito a trovare il modo di farsi comprendere. Il Time gli ha anche dedicato una copertina in cui lo definisce uomo del Rinascimento.
Lui, chiaro, è un esempio eclatante. E qualche volta, lo ammetto, insieme a Temple Grandin mi ha dato speranza, in barba a chi mi dice di volare basso nelle aspettative per mia figlia. Non desidero che lei sia un genio, solo che possa essere felice, realizzando i suoi “punti di forza.”
Mi piace pensare che con la sua visione del mondo “diversa”, anche lei possa dare un contributo alla visione del mondo “consueta”. E come lei chiunque altro appartenga al mondo della diversità. Certo, ha bisogno di essere appoggiata, sostenuta. È faticoso, dispendioso in termini economici, di forze e di energia, stare a fianco a questi “outsider”. Che poi ci sono outsider e outsider e il mio discorso non vuole essere generalista, di fatto le mie riflessioni nascono sempre in margine alla storia di mia figlia, sono consapevole che ci sono casi diversi di autismo, alcuni più gravi di altri.
L’altro giorno, mentre Dorothea lei si allenava al campo di atletica, parlavo con la madre di un ragazzo di diciassette anni, autistico anche lui. Alla fine delle medie i genitori gli hanno proposto di fare l’artistico e non perché fosse particolarmente versato nella pittura, ma perché la pittura gli dava piacere, nella manipolazione degli elementi, e tra l’altro i risultati espressi nei suoi quadri sono di forte impatto emotivo, al punto che i genitori hanno già fatto delle mostre con i suoi oli.
Chiaro che in questo caso è fondamentale la mediazione tra l’individuo e il resto del mondo, si tratta di facilitare uno scambio cui altrimenti non si arriverebbe.
Ritornando al mio riferimento ideale chissà se Byrne, invece di formare i Talking Heads avesse continuato a fare sculture e fotografie.
Come post scriptum: Dorothea adora Byrne e in particolare il suo album con St. Vincent che vorrebbe ascoltare in continuazione. Chissà se è per via di un linguaggio in comune. Al mattino, appena sveglia, mi chiede di metterle “Lazarus”. Che un po’ fa ridere, ma fa anche pensare.
art di Joe Webb, Love and Antares III
non conosco Byrne e non mi interesso di musica, ma qui mi affascina la tua visuale.
“Lui è lo sguardo alieno che vedeva e vede le cose da un punto di vista esterno, ma allo stesso tempo stando all’interno. ” dici e io penso che in fondo tu, parlandone, usi il medesimo sguardo, se non alieno, inusuale, per valutare un cantante, interno e esterno alla musica (i cui tuoi parametri sono l’autismo e le ripercussioni su tua figlia) e io, da ignorante musicale, ascoltandoti/leggendoti, mi lascio coinvolgere da questo tuo particolare punto di osservazione, immagino la sua musica, semplice e costosa (quanto gli deve costare ogni volta salire sul palco), e la pulsione che c’è dietro, la spinta a fare, comunicare, nonostante il prezzo che ha da pagare.
quindi grazie
ml
"Mi piace""Mi piace"
Ciao Massimo che belle parole, grazie, mi piace quest’analogia e pensare di essere un po’ aliena a mia volta. In effetti mi sento aliena, quando non alienata. Ma… sul serio non hai mai “frequentato” Byrne? nemmeno versione Talking Heads? Sarà che mi accompagna da tanti anni il buon David e allora lo do per scontato come “patrimonio dell’umanità” 😉 un caro saluto e a presto!
"Mi piace"Piace a 1 persona