Quelli che non si stancano di cercare

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Ogni volta è la stessa cosa: una parte di me è frustrata e rabbiosa, l’altra vilipesa, avvilita, sconfortata. Penso che non dovrei sentirmi così alla fine della riunione con la neuropsichiatra che ha in carico mia figlia, presso la Fondazione dove viene seguita da sette anni, per la “riabilitazione”. Questo “colloquio genitoriale” inteso come un confronto, ha ormai tutte le caratteristiche di uno scontro e replica le stesse dinamiche, da quattro anni. Alla base di tutto non c’è mia figlia, al cui benessere questa occasione dovrebbe essere dedicata, ma una questione d’altro genere.

Non riconosco più questa dottoressa come un riferimento, non ho più nessuna fiducia in lei. Lei chiaramente lo avverte, e si sente messa in discussione (e credo anche minacciata) da ogni mia nuova proposta di intervento.

Ieri la tensione è arrivata al culmine: la dottoressa decantava la crescita fatta da Dorothea e io ho commentato che di certo il risultato era grazie alla scuola e allo sport, omettendo, ma non deliberatamente, le terapie della Fondazione. Lei, rossa in volto, ha sbottato: “Ogni volta vuole farmi capire che non facciamo abbastanza”. Non l’avevo mai vista così alterata, ma la cosa non mi disturbava, era come se osservassi tutto dall’esterno. Non era mia intenzione litigare, chiaro che non sminuisco il lavoro delle terapiste, ma certo se mia figlia è migliorata questa dottoressa è l’ultima che può cantare vittoria attribuendosi meriti che non le competono.

Lei stessa, per screditare la mia “malafede”, non aveva molto materiale in suo favore, e infatti ha citato il lavoro svolto da una terapista molto competente che però era terminato più di tre anni fa, quando Dorothea aveva sei anni. Adesso ne ha quasi dieci. Che tipo di intervento era stato messo in opera per lei da allora fino a oggi?

Quando l’ottima terapista aveva completato il suo ciclo, Dorothea stava ultimando la materna e si ritrovava con solo quarantacinque minuti settimanali di psicomotricità. L’unità di neuropsichiatria della Fondazione non riusciva ad aggiungere altre sedute, ci misero in lista d’attesa per la logopedia e dopo varie pressioni che feci ci venne proposta la possibilità di aggiungere un’altra seduta, ma in orari difficili, tipo a mezzogiorno e mezzo o alle nove e mezzo. Dopo aver fatto anche la prova, (non potevano rifiutare così su due piedi), verificammo che Dorothea era destabilizzata dall’uscire dopo nemmeno un’ora di scuola, per salire in auto e andare in un altro posto per quarantacinque minuti di terapia. La dottoressa ci disse che a quel punto avremmo dovuto intervenire noi, con una terapia privata. Decidessimo pure quello che ritenevamo più opportuno: ippoterapia, musicoterapia, arteterapia… Che alle mie orecchie suonava aleatorio, quanto non sconcertante, quasi surreale, del tipo va bene tutto quello che finisca con terapia.

Finalmente, dopo due anni e mezzo di lista d’attesa, l’estate scorsa hanno avuto inizio le sedute di logopedia.

In questo periodo di “intervento leggero” da parte della Fondazione, Dorothea ha fatto ABA per due anni, e questa attività è stata interrotta solo quando abbiamo visto che a scuola, al primo anno di primaria, riuscivano a mettere a punto un percorso per molti versi analogo. Le insegnanti di Dorothea, come ho già avuto di scrivere in altri post, sono straordinarie e il sostegno che mia figlia riceve è notevole. Nel contempo mia figlia ha praticato musicoterapia orchestrale finché non è emerso il grande potere che lo sport ha su di lei. Il nuoto e l’atletica leggera al momento sono la sua attività principale dopo la scuola.

Quanto ad ABA, non era un’idea peregrina o bislacca partorita dalla mia mente.

Dorothea era stata visitata da uno specialista dell’equipe di neuropsichiatria dell’Ospedale di Brescia. L’avevo contattato per capire di più sulla ipotonicità che lei presenta, ma il responso che ebbi alla fine dell’incontro mi lasciò di sale: i veri problemi della bambina erano di natura cognitivo comportamentali. “Sua figlia è autistica” disse, senza mezzi termini.

La neuropsichiatra della Fondazione non ci aveva mai fatto parola su un possibile autismo e quando la informai della volontà di andare in fondo alla questione, chiedendo un consulto al San Paolo, mi disse che non la riteneva una cosa necessaria. Dopo un anno (tali sono i tempi di attesa per la visita) portai la diagnosi alla neuropsichiatra che commentò: “Avremmo potuto far tutto qui”.

Adesso no che non ha diritto di offendersi, la dottoressa, e non mi rimangio ciò che ho detto: non è grazie a lei se Dorothea migliora, anzi se non fossi sempre così cauta e rispettosa nei confronti di tutti, anche di chi non ha di queste attenzioni nei nostri confronti, affermerei che nonostante la dottoressa, Dorothea è migliorata.

So che non sono l’unico genitore che si trova in conflitto con il neuropsichiatra di riferimento. Chi ha voglia di capire di più sul mistero rappresentato dal proprio figlio o figlia speciale si trova in situazioni del genere e avrei già cambiato unità di neuropsichiatria se avessi potuto farlo autonomamente. Il paradosso è che alla fine si passa per persone che non hanno fiducia, o fede, che vogliono fare i medici senza averne competenza. Noi genitori non saremo medici (salvo per chi lo è), ma certo siamo i genitori, e questo già dice tutto. Lo so che non sono un interlocutore facile, ma non posso essere altrimenti, la questione è troppo importante per tergiversare e rimanere nel vago.

Purtroppo c’è anche il fatto che le unità di neuropsichiatria, almeno qui a Milano, sono sovraccariche di richieste per diagnosi e terapie. E come fa chi non è rompiballe, o non ha accesso a informazioni d’altra fonte, o non capisce bene la lingua e non sa come muoversi per vie alternative, o non ha soldi né aiuto d’altro genere per pagare delle terapie private? Se si basa sulle indicazioni di un medico con una visione “limitata” e che non ha l’onestà o il tempo di aprirsi a confronti con altri medici? Se l’intervento che riceve per il proprio figlio o figlia è scarso? Non sto generalizzando, non voglio screditare la neuropsichiatria infantile in generale, ma la mia esperienza, insieme a quella di altri, mi induce a porre il problema.

Un genitore che dice al neuropsichiatra di voler portare il figlio dal neurologo per avere una visione più ampia del caso non può sentirsi rispondere, in modo piccato: “Che cosa c’entra la neurologia? Dovrei contattare questo specialista per coordinarmi, ma ho troppi bambini da seguire.”

Questo è quanto mi è stato detto ieri. Beh, io non accetto una risposta del genere.

Ecco perché tanti genitori, nel tentativo di sapere di più, si trovano a cercare di loro iniziativa. A volte, dopo tanto provare e cercare, trovano dei buoni riferimenti. Altre volte va meno bene.

Rispetto a questa mia “ansia” di ricerca a dottoressa ha una frase, che tira fuori alla fine di ogni incontro: “Bisogna accettare”. Come se fosse una questione che la riguarda. Potrà esprimere una visione medica, valida o meno che sia, ma non morale. Soprattutto se non sa che cosa significhi essere genitore “speciale”. Questa frase tutt’al più può venire da un prete, un monaco o chissà chi altro a cui uno si rivolga per chiedere aiuto spirituale.

Che io accetti o no, questo è affare mio. Che poi accettare che cosa significa? Che mia figlia non mi va bene, che non la riconosco per come è fatta? Sarebbe un’insinuazione poco riguardosa.

Vuol dire che mi devo rassegnare? Sicuramente il suo lavoro ne sarebbe facilitato.

Mi spiace no, non mi rassegno, continuerò a cercare.

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