Per fortuna ci siete voi

nonni

I primi tempi in cui portavo Dorothea alle terapie del Don Gnocchi mi imbattevo spesso in un signore d’aspetto distinto e insieme consunto. Era lì con il nipote down, di circa due anni. I due si assomigliavano in modo particolare: il bimbo era albino e aveva il viso paffuto, con una montatura verde a circondargli gli occhi sonnacchiosi. Il nonno, anche lui piuttosto pienotto, era canuto e portava a sua volta gli occhiali. L’istinto di tenerezza che mi saliva dal profondo li avvolgeva come un tutto indissolubile mentre il più vecchio, in golfino e camicia, con un’espressione tra lo sperduto e il rassegnato, girellava per il corridoio tenendo il piccolo in braccio, in attesa che iniziasse la seduta. Qualche volta “il vecchio” faceva da scorta alla figlia e al genero. Si teneva in disparte, con la creaturina stretta al petto mentre la coppia confabulava su quello che aveva appena sentito dire dal medico e dal terapista, a lui i resoconti non sembravano interessare granché, preferiva attenersi al ruolo di balia e insieme di protezione, affinché le preoccupazioni che aleggiavano attorno ai genitori non potessero sfiorare colui che aveva ricevuto in custodia.

Ne ho visti tanti, di nonni, fuori e dentro al Don Gnocchi, più o meno disinvolti, e alle prese con nipoti con problemi più o meno complessi: dalla “semplice” dislessia alla tetraparesi. Seduti granitici nella sala d’aspetto, come mio suocero buonanima, o in camminata nervosa davanti alla porta dei terapisti, o ancora con lo sguardo accudente, lungo la corsia di una piscina o affacciati alla transenna di un campo di atletica. Sono apparentemente inossidabili e inscalfibili, forti di quella consapevolezza che dona la vita a partire da un certo momento, eppure, in un sospiro emesso all’improvviso, lasciano trasparire lo sconforto di quel colpo ricevuto, il più duro di tutti. Mi è rimasta impressa una nonna con un seienne autistico. Lui era spesso preda di crisi feroci in cui si metteva a gridare, lei cercava di farlo ricomporre, come una nonna alle prese con i capricci di un nipote “normale”: “Roberto, adesso basta Roberto”, ripeteva con voce ferma non alterata più di tanto, ma il suo volto contratto mostrava la fatica di chi fronteggia una situazione al di sopra delle proprie capacità. Sono nonni che non possono fare solo quello di solito fanno i nonni. Devono loro malgrado apprendere e prestarsi a cose nuove, che non hanno nulla a che vedere con ciò di cui si sono occupati fino ad allora. Si caricano sulle spalle la sorte capitata ai figli. Non smettono di essere genitori, diventano la quintessenza del genitore perché ora si devono prendere cura dei figli dei figli e in un modo che allora non avevano sperimentato.

Con lo smartphone che hanno imparato a usare, spesso controvoglia, vanno a ricercare approfondimenti su internet. E digitano termini che avrebbero incontrato solo leggendo un articolo sul giornale e che invece adesso sperimentando sul campo. Cose del tipo: ecolalia. Oppure stereotipia. Le vedono in atto, davanti a loro, ma hanno bisogno di un confronto.

So che non ha senso fare classifiche di questo tipo, ma la sorte dei nonni “speciali” mi appare come “più ingiusta” di quella dei genitori. I nonni, anche loro andrebbero protetti, come i bambini, di solito ne hanno già viste tante, soprattutto se hanno superato i settant’anni. Ma grazie a Dio che ci sono questi nonni, che diventano infermieri e anche terapisti, all’occasione. Che imparano quale farmaco somministrare, quale cibo evitare, che telefonano dopo ogni visita per sapere se ci sono novità, che si commuovono a ogni nuova conquista fatta, anche se così piccola da apprire insignificante secondo la scala della cosiddetta “normalità”. Loro si fanno carico di qualcosa di più delle incombenze quotidiane, come il portare e l’andar prendere a scuola, o curare un’influenza: quella di questi nipoti fragili non è una condizione passeggera. Spesso vedono più lontano dei figli e mettono a frutto tutta l’esperienza che si sono fatti, in generale, per suggerire quale strada prendere, quali altri percorsi ricercare, quando le prospettive a volte sono tali che nemmeno uno specialista sa dire che passo compiere.

Questi nonni non avranno studiato medicina, ma conoscono, perché vedono. E non solo con gli occhi.

Che Dorothea presentasse disturbi dello spettro dell’autismo i miei genitori lo avevano capito già quando lei era molto piccola. Mi allungavano articoli di giornale, e mi dicevano: sembra che stiano parlando di lei. Non li rassicurava il fatto che vari specialisti, tra cui la neuropsichiatra che l’aveva in carico, sostenessero il contrario. Suo padre e io preferivamo aderire all’opinione di “chi aveva studiato” e negava una relazione tra il comportamento della bambina e i sintomi di quella patologia che tanto faceva paura (forse perché noi stessi sospettavamo qualcosa?). Finché non ci fu chi, tra i camici bianchi, disse chiaro e tondo quello che altri avevano negato. Al di là della definizione, che poco risolveva, il fatto di aver messo in evidenza quale fosse l’area su cui intraprendere la riabilitazione segnò un punto importante. E la stessa neuropsichiatra, di fronte a una diagnosi di tutto rispetto, ritrattò.

Ma ai miei, allora, non avevo prestato ascolto. Loro, ai miei occhi, non “sapevano” abbastanza.

E ancora oggi io, quella che ha bisogno di conferme dall’esterno, dai libri, dai titolati, leggo a mia madre un capitolo da uno studio sull’autismo consigliatomi da un terapista come “portentoso e rivelatore”. L’autrice dello studio, autistica lei stessa, scrive che un individuo affetto da questa patologia “si muove in continuazione per ritrovare o tornare a un punto di equilibrio”. Attenzione: i movimenti che compie non sono casuali.

Mia madre mi ascolta, mentre è intenta a sprimacciare un cuscino, e poi, serafica, osserva: “Ma non capisco che cosa dica di tanto speciale questo libro.”

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