“Che cos’è la libertà?” Nina Simone scoppia a ridere in faccia al suo intervistatore, imbarazzata, e un po’ sarcastica, prende tempo per pensare, poi dichiara: “La libertà è un sentimento”.
Lei, donna, nera, amica di Malcom X e Martin Luther King, vissuta nell’epoca in cui negli Stati Uniti si mandava la meglio gioventù al massacro del Vietnam, la vedeva così.
Sono le prime battute del film documentario “What happened, Miss Simone?”, illuminante non solo sulla vita di questa straordinaria donna e artista, ma anche su tanti altri aspetti che ciascuno di noi, donna o uomo, si trova a vivere nei nostri giorni, a quasi cinquant’anni da quella intervista.
Che la libertà fosse un sentimento mi sembrava una “conclusione” comunque amara. Come dire che la libertà è soggettiva e a farla vivere è solo l’individuo, dentro di sé. Lei, Nina, sosteneva di essersi sentita veramente libera solo “un paio di volte”, e mentre suonava. Il “paio di volte” soprattutto era sorprendente (ma non avevo ancora visto il resto del film).
La libertà, dunque, che cos’è? Io l’avevo considerata sempre come qualcosa di oggettivo. Tutto aveva origine da una prospettiva “ideale” o “idealistica” nutrita dall’educazione civica delle elementari, a cavallo tra anni settanta e ottanta, e dalla celebrazione del 25 aprile, dal primo articolo della costituzione italiana, su cui poi si era innestata la lettura di Levi, Rousseau, Wordsworth. Il mio entusiasmo e aspirazioni giovanili avevano fatto il resto. E nell’età adulta? Quando mi sono detta che dovevo scendere con i piedi per terra e trovarmi un posto fisso e pensare a una famiglia e ho fatto una famiglia ed è nata Dorothea, allora tutto è diventato molto… relativo.
Innanzitutto: libertà come esseri liberi da. L’altro giorno, ad esempio, mi sono sentita libera mentre, alle nove circa, percorrevo la stessa strada che facevo un tempo per andare in un ufficio, senza dover andare in ufficio. Ma forse quella non era una vera sensazione di libertà, era un po’ anche mista a una specie di orrore (il termine è forte, ma non ingiustificato) di fronte a uno sciame in attesa di attraversare la strada per dirigersi verso il posto di lavoro. Le ore al computer in condivisione di uno spazio, le pause caffè e le pause pranzo e le chiacchere tanto per sacrificare anche il poco tempo rimasto per sé. Adesso sono “un libero professionista”, che è piuttosto un ossimoro, perché qui libero significa piuttosto “esposto a tutto”, dalle arbitrarietà di chi ti ingaggia alla imperiosità delle richieste erariali, diciamo che mi vivo le grane e le ansie lavorative in solitaria.
E poi: libertà come essere liberi di. Libera di seguire mia figlia, di aiutarla. Di giorno, con lei per terapie e allenamenti, e semplice e puro affetto famigliare. Di notte e nei fine settimana seduta al computer per adempiere a quello di cui sopra.
La libertà insomma, per come la sto sperimentando, è una pratica costante e impegnativa. Non c’è niente di aprioristico, ed è forse questo ciò che vuol dire l’articolo primo della costituzione come “repubblica fondata sul lavoro”.
E i diritti inderogabili? Di fatto, posso decidere quando e come uscire di casa, posso pianificare le mie prossime attività, informarmi, o almeno, essere convinta di riuscire a farlo. Cercare un lavoro, fare un acquisto compatibile con le mie disponibilità economiche, posso scrivere queste righe e pubblicarle. È questa la libertà?
Ma queste cose le faccio in quanto donna o in quanto cittadina? Che cosa decide chi sono? Il codice fiscale?
Io mi sento libera. Sì, forse lo sono, teoricamente: libera pur se condizionata. Al momento attuale, di fatto, ho i presupposti per dichiararmi “civilmente” libera.
C’è un altro tipo di libertà, tutta mia: quello che avverto quando mi arrampico su per una montagna o quando vado in bicicletta, certe domeniche mattina, ed è una sensazione diversa, fisica, di potermi espandere nello spazio, ed è assai più gratificante, di quella “civile”, perennemente frustrata dai doveri e da piccole-grandi ingiustizie.
La mia libertà personale, allora, è forse lei quel sentimento? No, rimane pur sempre una sensazione. Il sentimento è connotato, lo sai riconoscere quando arriva, ti trasporta e ti ispira, e ci trovi una parte di te. In “sensazione” invece prevale un aspetto percettivo, e nasce da una circostanza esteriore. Inoltre, la sensazione è fugace, aleatoria, indistinta. Quando provi una sensazione, non sai per quanto essa durerà, un sentimento è qualcosa di più prolungato ed espanso.
Io, al sentimento, non ci arrivo. Sono una donna bianca che vive in Italia nel secondo decennio del duemila. Ho una figlia ” speciale”, che mi prende tutte le attenzioni e faccio parte di quelli che assistono, sui giornali e alla televisione, a sbarchi di emigranti e sente di non poter riuscire a far niente per aiutare questa povera gente e non ci prova nemmeno. Altro che testi che diano ispirazione per migliorare le condizioni di vita di chi soffre, di chi non viene visto da nessuno. Mi barcameno come scribacchina e vivo alla giornata.
Come si fa, Miss Simone, a provare la libertà?