Tre mesi. Tre mesi che mi ero disposta ad affrontare come un percorso in cui disciplinare forze ed energie. Più che di un piano disponevo di un canovaccio, qualche riferimento sui cambi di ritmo, di meta e di collaborazioni. Ma, niente da fare, era una strada in salita, da misurare passo a passo, secondo le difficoltà che avremmo incontrato sulla via. D’accordo, si trattava solo delle vacanze scolastiche di mia figlia, mica di un corso di sopravvivenza. Infatti non siamo sopravvissute, e ora che mi separano solo due giorni dalla data del 12 settembre ho la sensazione che siamo riuscite propriamente a vivere, nonostante tutto, e il risultato è in tutto questo caos che mi circonda: magliette e lenzuola da piegare, libri e giochi da rimettere negli scaffali. Azione, movimento, vita.
Le vacanze scolastiche per dei genitori senza i nonni a portata di mano non sono una cosa semplice, ma per un genitore single con un figlio o una figlia speciale lo sono ancora meno. E non si tratta solo di organizzare il tempo infinito senza più orari di entrata e di uscita, per un intrattenimento che tenga impiegato lui o lei, si tratta di creare una vera e propria dimensione in cui bilanciare molteplici aspetti.
Quelli preponderanti, per me, erano le esigenze di Dorothea, e cioè darle la possibilità di svagarsi, senza troppo stress (almeno per lei). Alcune associazioni per bambini e ragazzi “fuoriserie” organizzano dei campus, ma durano una o due settimane, come dire una goccia nel mare, e costano carissimi, soprattutto di solito accolgono solo bambini e ragazzi “fuoriserie”. D’altro canto ci sono possibilità di partecipare a contesti con ragazzi “normali” con l’affiancamento di un educatore. Il problema è che Dorothea ha una spiccata intolleranza per la concitazione di tanti ragazzi che giocano e si divertono. Trovare un ambito adatto a lei è davvero una sfida. Ad aprile, navigando in rete, avevo trovato una proposta di campus “inclusivo”, organizzato da AITA, un’associazione che mi sembrava avesse delle proposte serie e fondate. Inclusivo vuol dire che mette insieme “fuoriserie” e “normali”. Ho contattato AITA e ho scoperto che avremmo avuto la possibilità di impiegare ben tre settimane presso la Fondazione Milan a una cifra per lo più simbolica. La cosa ancora più bella era che il gruppo di partecipanti tra “normali” e “speciali” era davvero ridotto: non più di trenta in tutto. Dorothea sarebbe stata l’unica femmina, avrebbe imparato a giocare a calcio. La cosa ci stava più che bene, l’unico neo era che la sede, praticamente dall’altra parte della città.
Tra portarla e andare a prenderla si trattava di impiegare tre ore al giorno al volante, tre ore in cui mi affidavo alla compagnia della radio nazionale. Facevo appena in tempo ad arrivare a case che era già il momento di tornare indietro. Una faticaccia, ma è valsa la pena e sentirle dire che le piaceva la “scuola calcio”, come la chiamava, bastava a ripagare di tutto. Lei però non resisteva l’intera giornata e il momento del pranzo non lo sopportava molto bene, anche se c’erano comunque gli educatori ad aiutarla a vincere quei momenti difficili, in cui lei non riusciva a tollerare gli schiamazzi dei bambini lasciati “liberi”. Al di là di questo si divertiva a giocare a calcio e subito dopo a rinfrescarsi nella piscina, da sola oppure insieme a un piccoletto autistico con cui aveva stabilito un insospettabile legame.
Le tre settimane sono finite, e io avevo tanto lavoro, non potevo dedicarmici solo nelle ore notturne, inoltre non mi sembrava bello che Dorothea stesse a casa da sola tutto il giorno. Avevo sentito parlare di un campus al Parco Nord che aveva come tema l’osservazione della Natura e siccome Dorothea è molto interessata alla scienza sono andata a vedere il posto, e sembrava perfetto: la grande cascina immersa nel verde e, solo, dico solo dieci ragazzini. Passeggiate alla scoperta del territorio, educatori giovani, ma attenti e disponibili. La faccenda qui si faceva più costosa perché avrei dovuto pagare un’educatrice, ma avevamo risparmiato sulle prime tre settimane quindi potevamo permetterci questo “lusso”. Avevo convinto la ragazza che aveva seguito Dorothea nel campus Milan ad accompagnarci in questa nuova avventura, così almeno da mantenere una continuità.
Ed è successo quello che mai mi sarei immaginata, mi ero concentrata sul luogo, sull’argomento, su chi avrebbe guidato le attività, ma non avevo fatto conto con loro: i bambini. Dieci sì, tra i nove e i dodici anni, che però non ne volevano assolutamente sapere di avere a che fare con mia figlia.
Sin dal primo momento che l’hanno vista hanno eretto un muro e non c’è stato modo di scalfirlo granché. Non ero preparata a una cosa del genere, alla sospettosità, alla non apertura, se non addirittura all’ostilità. E dopo aver cercato in qualche modo di parlare con quei bambini per far loro capire come fosse importante aprirsi all’incontro, e notare che di fatto le cose rimanevano immutate mi è sembrato più giusto che Dorothea rimanesse a casa. Mi ero consigliata anche con le maestre di scuola, con cui ci eravamo incontrate per fare un punto sulla situazione estiva. Anche loro ritenevano che fosse meglio non proseguire a fronte di un comportamento del genere da parte dei suoi coetanei.
Dorothea è così rimasta a casa e in qualche modo siamo riuscite ad attraversare due settimane, grazie all’iuto dell’educatrice, che veniva qualche ora al mattino. Agosto è arrivato e siamo partite per la Val di Fiemme, due settimane di ritiro dal resto del mondo, in cui abbiamo trovato un nostro equilibrio quotidiano, tra riposo in casa e passeggiate. Non è stato facile, per lei e per me, fare il cambio con la gestione paterna della seconda metà del mese. L’ho preso come un periodo per “staccare”, come si dice, anche se poi non è che si può “staccare” davvero. Non puoi staccare dal fatto di essere madre, soprattutto quando condividi ogni giorno. Ma ho staccato, almeno una settimana, e mi è comunque servito.
Al suo ritorno siamo ripartite per il mare. In spiaggia al mattino presto e alla sera al tramonto, il resto del giorno tappate in casa. E ora, che siamo ritornate anche dal mare, mentre disfo le valigie e faccio la lavatrice e ci sono le cose da rimettere al loro posto, sento che in realtà non c’è niente che torna veramente nella collocazione di prima. Non è poi tutto veramente come prima, e anche noi due siamo cambiate: sicuramente ci conosciamo meglio. Lei non è più la bambina di cui mi devo prendere cura, è piuttosto un piccolo adulto che devo comprendere e con cui mi devo mettere in relazione. Mi sono sempre concentrata su cosa sia essere sua madre, adesso mi chiedo come sia essere figlia di una madre come me.
Illustrazione di Brooke Smart, Bringing up Baby
http://www.brooke-smart.com/#/bringing-up-baby/