Tante storie, un solo amore

neveEra il gennaio del 1995. A Pietroburgo la neve cadeva incessantemente, giorno e notte, e comunque non era facile distinguere il primo dalla seconda, perché quel bagliore che durava dalle dieci di mattina alle tre del pomeriggio era denso, caliginoso. Gli edifici azzurrini e grigi erano ectoplasmi con una serie infinita di orbite nere. Sembravano tutti disabitati finché le orbite non si accendevano di un bagliore giallo-rossastro. Quando non cadeva la neve, arrivava il gelo, c’era ghiaccio dappertutto. Sui marciapiedi, sulle strade, sull’acqua. La superficie della Neva s’increspava e così rimaneva: frastagliata e bianca. Lungo il vialone che costeggiava la Facoltà di Lettere e Filologia sul parapetto del fiume c’erano due sfingi a fare da guardia. Due Sfingi dell’Egitto. Con la neve non centravano nulla, ma sembravano loro le responsabili di quel prodigio che sottraeva movimento a ogni cosa intorno.

A me la neve piace, ma quella sua presenza costante e massiccia mi gravava come il fardello sulle spalle di Atlante. Un tardo pomeriggio all’uscita dalle lezioni, i fiocchi si erano fatti piccolissimi e vorticavano indiavolati, confondevano cielo e terra, dopo un viaggio su un filobus arrancante scesi nei pressi del convitto universitario e mi resi conto di non sapermi orientare. Le case, gli alberi, era tutto scomparso. Vagai un’ora buona prima di arrivare sana e salva, la nonnina alla reception mi disse, soave:

“Ma che ci faceva in giro, che oggi c’è bufera?”

Persino il mare, in quei mesi, era ghiacciato. Una domenica con una ragazza di Roma con cui avevo fatto il viaggio dall’Italia, andammo in esplorazione nei pressi della Primorskaja, la fermata capolinea della metropolitana, sull’isola di San Basilio, dove vivevamo.

Passeggiammo sulla riva e poi ci avventurammo svariati metri più in là, giocando a camminare sulle acque contratte. Il ghiaccio sotto i nostri piedi era nero. Più avanti c’era una imbarcazione grande come un peschereccio, con un cane sopra che abbaiava furiosamente. “Una nave bloccata. Raggiungiamola” propose lei. Era figlia di un intellettuale russo fuoriuscito, uno che una volta, a quanto si diceva, aveva spostato un maggiolino che gli bloccava la strada con la forza delle sole braccia. Una degna figlia, non c’era verso di farle cambiare idea convincendola ad andare a bere un tè caldo al foyer dell’albergo lì vicino. All’improvviso la nave diede delle scosse, avanti e indietro, poi cominciò a muoversi lentamente.

“Camminare sul ghiaccio sarà anche romantico, ma è pericoloso” ci redarguì la nonnina, quando le raccontammo della nostra passeggiata (avevamo omesso il particolare che ci aveva fatto tornare indietro). Lei sorbiva il suo te, avvolta in uno scialle, al caldo del suo bugigattolo. Lavorava sempre a maglia, quando non doveva rispondere al telefono per poi chiamare con l’intercom: “Camera 44, Fedor Vlamidimirovič è pregato di scendere”. A guardarla bene non doveva essere poi così anziana, e aveva ancora un bel viso, ti faceva proprio venire di scendere in confidenze con lei, chissà se in epoca sovietica, conclusa da poco, aveva avuto l’incarico di riportare alla direttrice quello che veniva a sapere dagli studenti. Il nostro era il convitto “ideologico”. Quello dei dottorandi in filosofia. Ed era per questo che noi studenti stranieri venivamo condotti lì, una “vecchia” usanza di mettere gli ospiti a contatto con chi era ben strutturato dal punto di vista del pensiero marxista-leninista.

A poco a poco facevo amicizia con questi dottorandi. Tra questi mi trovai anche un corteggiatore, Andrej, che era stato ufficiale nell’armata rossa. Aveva solo ventotto anni, ma a me sembrava vecchissimo. Una volta mi invitò a vedere l’opera di Ruslan e Ljudmila, e non so se fosse maggiore il piacere o l’inquietudine di sentirsi trasportare dalla sua stretta poderosa, senza quasi toccare terra con i piedi. La ragazza russo-romana lo aveva soprannominato “l’omo de fero” questo perché quando incedeva lungo il corridoio con il  suo passo marziale produceva dei tonfi cupi, che facevano vibrare il pavimento di legno e le pareti. Dio sa perché al rientro dalla guerra in Afghanistan si fosse ritirato a studiare filosofia. Adesso penso che non studiasse veramente, che quella sua permanenza fosse piuttosto la riscossione di un premio dopo aver diretto carri-armati e truppe d’assalto. In fondo in fondo aveva un cuore tenero e nel suo scomparto del freezer teneva coni alla vaniglia e al lampone. Le passeggiate sotto zero che feci al riparo della sua scorta in un’ora in cui non c’era da correre per andare a lezione o acquistare da mangiare e dove il centro storico si vestiva di luci, luci da capitale culturale di un ex-impero, mi mostrarono tutta un’altra immagine della città. Il bianco della neve ingentiliva la silhouettes degli alberi spogli, incorniciava gli edifici storici sulla Prospettiva Nevskij, adornava come ovatta sul presepe le statue e le aiuole del Giardino d’Estate. Con il passare delle settimane imparai a scivolare sul ghiaccio senza procurarmi fratture, certo non procedevo con la grazia delle mie coetanee russe, che pattinavano verso i tunnel della metropolitana. Ai meno dieci, meno quindici gradi non riuscivo invece ad abituarmi ed ero un fantoccio che girava con un cappotto e due tute di pile e due paia di guanti. Per fortuna i musei e i teatri, le aule dell’università e le biblioteche, erano molto ben riscaldati, a volte anche troppo e il freddo non era una compagnia costante. Fedja (quello della stanza 44), mi diceva che per abituarmi alle loro temperature rigide avrei dovuto correre in canottiera al mattino presto. Lui lo faceva. Una volta che uscivo per le lezioni prima del solito lo incontrai che galoppava sul viale attorno all’edificio, mi salutò a gran voce, sorridente e pieno di vita. Una cartolina anacronistica della propaganda staliniana.

Siccome i mezzi verso il convitto passavano raramente, a volte ogni quaranta minuti, imparai a fare come i pietroburghesi, che andavano a piedi. I pietroburghesi erano grandi camminatori. Solo le nonne di settant’anni restavano, pazienti, ad aspettare, la testa avvolta in un fazzoletto e la mano appoggiata sulla maniglia del carrellino per il trasporto della spesa. Erano donne che portavano inciso nell’anima l’assedio di Leningrado. Quell’evento non era un ricordo, piuttosto una ferita profonda e viveva non solo nei versi dell’Achmatova, ma negli occhi di chi l’aveva vissuto. Di più, il dolore si era condensato come una presenza. Una volta viaggiavo con Martin, un mio compagno di studi di Dresda. Salì una di queste babuški, che faticava a camminare. Lui le andò incontro e le offrì il posto a sedere. Lei lo guardò con aria amorevole, ringraziò, e quando lui cercò di avviare una conversazione, lei udì il suo forte accento germanico e senza aggiungere altro, impaurita, sdegnata, si alzò da sedere e si spostò più avanti. Lui, figlio di un pastore luterano, nonostante i tratti marcati del volto aveva un animo gentile, amava le poesie di Esenin, su cui scriveva la tesi di laurea. Si strinse nelle spalle, e posò lo sguardo a terra. C’era poco da commentare.

Sulla sponda della Neva mi innamorai. Lui aveva un colbacco di volpe bianca come il principe di una favola illustrata da Bilibin. Insegnava letteratura di inizio Novecento e nessuno lo eguagliava in entusiasmo e vigore quando declamava le poesie di Majkovskij.

Nevicò tutto marzo, smise ai primi di aprile e quando il ghiaccio si sciolse e la coltre bianca sparì dai tetti, dai parchi e dai marciapiedi mi venne a mancare la presenza di qualcosa. Le famose Notti Bianche che arrivavano sul fare di giugno non avevano alcun fascino per me. Il bianco che preferivo era di gran lunga un altro e quando ritornò a novembre sentii che tutto si rimetteva al suo posto, le cose erano come dovevano essere. Le lezioni, il caffè, le passeggiate, gli spettacoli di Dodin al Piccolo Teatro, le lampade verdi della biblioteca delle Scienze (il centro del mio mondo ed era tutto ciò di cui sentivo il bisogno), erano completi solo con la neve.

Nelle giornate come quella di oggi, che lei cade sottile, impercettibile, ogni tanto guardo oltre il vetro del mio appartamento. Sono ancora lì, a Pietroburgo.


In alto: da IPhone Photography Awards “Girl in the Snowstorm in St. Peterburg”

 

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