Non avevo un buon rapporto con i miei compagni di liceo. Li trovavo troppo impegnati a dimostrare. O meglio, divisi tra chi dimostrava di avere soldi, abiti firmati, fisico attraente, intelligenza, cultura e chi aspirava a essere come chi dimostrava. Gli uni mi erano insopportabili, gli altri patetici. Quanto a me, mi ero ritagliata il ruolo dell’outsider, di chi dice no: ai clientelismi, alle lusinghe del benessere, alle raccomandazioni. Niente a che vedere con il movimento giovanile comunista, ero Bartleby che andava alle superiori, vestito da Robert Smith. Forse perché in quella scuola blasonata non c’era nessuno a proteggermi? Alle giacche Moncler e alle Timberland contrapponevo dei camiciotti neri e ciuffi sugli occhi e aria tetra. Ed ero cosi impegnata nel mio ruolo da non accorgermi che anche quella mia protesta era una dimostrazione. Il primo giorno di ginnasio sul foglio in cui la professoressa di greco e latino ci aveva detto di scrivere le professioni dei nostri genitori vergai: “PADRE, OPERAIO”, “MADRE, OPERAIA”. Non avevo nemmeno cercato di ricorrere alle definizioni patinate che erano stati i miei jolly negli anni prima: elettromeccanico specializzato, orlatrice. I tempi gentili delle medie erano finiti. Dunque, volevano prendermi le misure? Eccole.
Come si può capire da queste premesse, furono cinque anni difficili, di cui i primi due, da quella dichiarazione in avanti, una lotta di trincea sul confine della sufficienza.
Il rapporto con i compagni nel tempo cambiò, soprattutto con i maschi, quando smisi i camiciotti per le gonne sopra il ginocchio e la mia taglia di reggiseno divenne più che rispettabile. E poi nella classe c’era qualcun altro fuori dalle righe, a metà tra il nerd e il freak: un ragazzino mite, dalle grandi orecchie, che diventavano rosse quando non sapeva rispondere alle domande dei professori. Era in possesso di una straordinaria cultura no-glut, per lui qualsiasi materia si deframmentava in una miriade di informazioni, senza nesso tra di loro. Gli chiedevi perché e rispondeva quando. Puro e immacolato, diceva sempre la verità ed era ammalato di paratassi, un po’ come lo sono io adesso che scrivo queste righe. C’era poi il poeta, che alle lezioni di biologia componeva endecasillabi. Il creativo, che sosteneva che studiare prima di un compito in classe fosse deleterio rispetto all’esito dello stesso perché spegne l’immaginazione e la fantasia. Il portiere, il più bello della classe, e forse della scuola, che veniva in moto e teneva il casco sul banco, parlava quasi sempre di calcio e stava in maniche corte anche d’inverno. Non si capiva come avesse deciso di fare il classico.
Tra le compagne c’era chi non mi trovava respingente e con mia stessa sorpresa mi veniva a cercare. Forse erano spinte da simpatia verso gli (auto)emarginati? C’era la mia vicina di banco, una vintagista, fan del cantante belga Adamo, star degli anni sessanta, e poi la ragazza dalle grandi tette e dalle minigonne vertiginose. La ballerina di danza classica innamorata di Tom Cruise, romantica e sorridente. Con costoro strinsi una qualche alleanza e sgomitai fino alla maturità. Poi mi iscrissi a lingue e letterature straniere, a Genova, e lì finalmente mi rilassai, non dovevo più stare sulle difensive, l’ateneo di lettere e filosofia era un territorio franco dove potevi scegliere con chi stare e dove nessuno ti valutava dal pedigree. A parte la ballerina di Tom Cruise e il poeta, che viaggiavano con me sul treno per diventare rispettivamente avvocato e psicanalista, non avrei rivisto più nessuno dei miei compagni.
Dopo l’università arrivarono gli anni dei viaggi e del girovagare, quindi l’ufficio. Poi la maternità e la scelta di lasciare l’ufficio. La separazione. Ed ecco che a giugno dell’anno scorso ricevo una telefonata, da un numero sconosciuto: era “il mite”. Mi spiegò che era passato da casa dei miei, che il numero l’aveva avuto da mio padre e annunciò, circostanziato, che avrebbero fatto un ritrovo dei compagni di classe, in tale data, presso il tale luogo.
Mi sentii come uno di quei personaggi dal passato torbido che pensano di essersi lasciato tutto alle spalle finché un giorno arriva qualcuno che dice: “io sono chi tu sei”. Nel rispondergli, senza remore, che non ero sicura che mi avrebbe fatto piacere rivedere tutti mi ritrovai faccia a faccia con la dark lady del liceo. Sorpresa! Non mi aveva lasciato mai. Possibile che dopo ventisette anni fossi la stessa di allora? L’(auto)ghettizzata protestataria? Il mite cercava di convincermi a vederla diversamente. E mi convinse. O meglio, mi convinsi che dovevo fare in modo di dimostrare che non ero più quella di ventisette anni prima. Il mio numero venne così registrato in una chat su whazzap da parte di chi aveva ideato il ritrovo, un tempo mia compagna di banco al ginnasio e ora una moglie di un diplomatico in un paese da mille e una notte. La chat era un continuo arrivare di messaggi. All’appello non c’erano assenti, eravamo di nuovo tutti in classe, mancavano solo i professori che però venivano evocati in un continuo “Vi ricordate quella volta che…?”. A scrivere erano i ragazzi di allora, che però avevano l’età dei loro genitori. Che però scrivevano come i ragazzi di allora, ma con emoticon a profusione. Gli emoticon? Noi studenti degli anni ottanta?
Qualcuno mi faceva piacere ritrovarlo, il poeta ad esempio, e la vintagista. E il portiere, chissà se si era mantenuto con il tempo. Respirai, di nuovo. Mi ero evoluta, ero cresciuta. Avrei potuto rivederli, senza temere. E che cosa avrei raccontato? Attenzione all’insidia, era un bilancio, una misurazione. Chi aveva fatto più strada, chi era veramente felice? Che cosa avrei raccontato, che ero precaria, single e con una figlia particolare? Forse avrei dovuto mentire, ma neanche del tutto, poi, piuttosto “indorare”. Che ero fidanzata, del resto avevo in ballo una mezza storia. E su Dorothea mi sarei tenuta sul vago, tipo che avevo una bambina in gamba. Dorothea lo è, nella sua particolarità. Ma loro avrebbero voluto sapere. La loro curiosità del risultato finale avrebbe appiattito in poche domande (che lavoro fai? Hai figli?) quasi tre decenni di ricerche, tentativi, speranze, progetti realizzati, altri falliti, altri lasciati a metà. Perché volevano a tutti i costi insinuarsi nella mia vita, adesso, perché mi costringevano a fare il confronto tra chi sognavo di essere e quello che ero diventata? Non dovevo essere l’unica, forse, a sentirmi a disagio perché dai venticinque compagni di scuola, via via che si approssimava la data, cominciarono ad arrivare le defezioni. Per motivi di lavoro, di famiglia. Rimanevano quasi solo loro, i dimostratori, quelli che col tempo erano diventati gli attori dei mei incubi sul liceo ed ora, dalle battute sulla chat, minacciavano carriere stellari, figli già al liceo, e solidi vincoli coniugali. Rimanevano loro, più la ragazza delle grandi tette e la vintagista. E quando quest’ultima a sua volta diede forfait non seppi resistere e mi ritirai anch’io. Mi pentii subito dopo aver mandato il messaggio, era un atto di codardia, un tradimento verso me stessa. Come se non bastasse, per questo fui vituperata dai rimanenti, ridando vita a un copione impolverato.
Qualche giorno più tardi qualcuno postò delle foto della serata, sulla chat. I chili di più, e i capelli di meno mi fecero male, le donne erano quelle che reggevano meglio il confronto con il passato, con il trucco, la tinta e i vestiti eleganti. Avevo scampato un pericolo, quello di finire immortalata tra loro. Però, in realtà, mi vedevo idealmente al loro fianco, con indosso il mio abito più bello affinché qualcun altro potesse commentare: “Be’, lei tuttavia non è poi così cambiata.” E in effetti rimanevo quella che si mette in disparte. Dall’esterno, astratta, contemplavo come il passaggio degli anni fosse stato impietoso, ogni singolo giorno che era trascorso dall’ultima campanella aveva lasciato un segno, e nei loro volti vedevo il mio. In ventisette anni avevamo avuto il tempo di fiorire e appassire. La ragazza con le grandi tette in particolate mi metteva amarezza perché, a differenza delle altre, era decisamente fuori forma, soprattutto rispetto all’immagine che conservavo di lei. Una montatura spessa le copriva parte del viso. Avevo intuito da qualcosa che aveva scritto che le piaceva cucinare. Gestiva un ristorante? Mah.
Dopo il ritrovo non ci furono molti altri interventi sulla chat. L’entusiasmo generale s’era spento, qualcuno a Natale mandò degli auguri e tra questi mi colpirono le parole della ragazza dalle grandi tette, ora la donna con la montatura spessa. Diceva che sperava in un anno migliore, dopo la radioterapia. Risposi, le augurai buon anno nuovo, a lei in particolare. E mi diedi dell’idiota, se non peggio, per essermi concentrata sull’aspetto fisico senza domandarmi che cosa l’avesse portata a essere come era apparsa a me, trascurata. Non avevo fatto altro che applicare quello che temevo di subire. Ero così concentrata a dissimulare le mie sfighe che avevo finito per togliere profondità alle vite degli altri.
Pochi giorni dopo qualcuno scrisse che se n’era andata. Andata, andata veramente. A cucinare per gli angeli. Erano ventisette anni che non la incontravo, e mi sentivo spiaccicata contro un vetro, infilzata in un punto tra il petto e lo stomaco. Avevo pensato che quei ragazzi con cui avevo condiviso tanto, nonostante tutto, fossero altro. Mi ero ostinata a farlo, per ripicca, per paura. La voce di lei me la ricordavo bene, e il suo profilo, con le guance piene, accese dalla cuperose e le labbra prominenti. La camicia bianca sbottonata sul davanti, la minigonna di jeans, le gambe tornite, gli stivali. Con lei era una parte di me che aveva cessato di esistere.
Riandai a vedere una foto dei giorni prima della maturità. Lei abbraccia il portiere, da dietro. Niente di sensuale, piuttosto un gesto d’affetto con la bellezza calma e piena dei diciotto anni.
Sono andata su Facebook, sapevo che non avrei dovuto, era come andare a frugare nel cassetto di chi non c’è più. Istintivamente, era un modo di cercarla ancora in vita. Un’ostinazione, un’assurdità anche questa, un atto di pentimento. E così ho scoperto che teneva un blog in cui raccontava la sua malattia.
Le prime pagine erano datate 2011. A un certo punto, dati i continui ricoveri, lo aveva tralasciato per postare solo su Facebook. Considerazioni sul qui e ora, nel qui e ora. Il trascorrere dei giorni in ospedale, le terapie. In certe battute mi sovviene della leggerezza che aveva, a scuola, nel dire certe cose, e della dolcezza. Le piaceva cucinare, ma doveva fare molta attenzione a quello che mangiava, il cibo per lei era fondamentale. In certi suoi pensieri rivedo delle mie posizioni, avevamo fatto un percorso simile, di consapevolezza. Lei per la sua malattia, io per mia figlia. Avremmo avuto di che parlare, se fossi andata a quella cena, ma non la posso nemmeno chiamare per dirle “sei coraggiosa” e per chiederle scusa della mia stupidità. Leggo un pensiero, uno degli ultimi, in cui scrive a proposito della qualità: è ciò che bisogna ricercare, più di tutto. Un’affermazione di chi, questo, lo aveva sperimentato su di sé con un corpo (non l’aspetto esteriore, ma l’organismo) cui prestare la massima attenzione. Ricercare la qualità. E io che pensavo di ispirarmi allo stesso principio, mi accorgo di continuare a cadere in errore perché nonostante tutto, non mi è facile procedere oltre le apparenze, le opinioni, le prese di posizione, i racconti cui preferisco dar retta, e quelli che mi creo, le immagini di me stessa cui sono legata nella linearità delle mie supposizioni. Ma più vado avanti, più mi rendo conto che è davvero questione di vita o di morte. Mi sono persa tante cose finora, ho perso anche la possibilità di rivedere lei. E anche se nelle sue parole ritrovo un insegnamento che magari mi salverà, in altre occasioni, per quanto mi sarà dato da vivere, non compenserà il fatto di non poterle più parlare.
la foto in alto è di Joseph Szabo, “Marianne and Mary Kay”, 1976
grazie per questo racconto onesto, nudo e delicato
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sei un tesoro. è bello condividere quello che scrivo con te.
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non è solo che lo scrivi bene, è che ti racconti con una finezza e un’onestà (mi ripeto) non da poco
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forse l’onestà è la cosa che mi viene più facilmente da offrire, da un po’ di tempo a questa parte, e nel voler raccontare questo episodio non c’erano altre strade che mettersi a nudo. In questo mi ha aiutato molto la riilettura (letto almeno un cinque volte) di un libro di Paolo Cognetti, Il ragazzo selvatico, che è stato fatto uscire qualche settimana fa, in una nuova edizione. Per caso l’hai letto? Io l’ho trovato splendido. buona serata, e un grande abbraccio. ps sono curiosa di leggere il tuo racconto, quello sulla rivista, dove lo posso trovare?
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oops, ti stavo scrivendo e ho cancellato anche il tuo messaggio. Sono una frana, volevo scriverti grazie del link, sicuramente a marzo me lo procurerò. buona serata!
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Mi unisco anche io ai ringraziamenti di Chiara. Veramente bello!
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WOW grazie Romolo! 🙂 non è stato facile scriverne… e offrirlo in lettura
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