Ricordo bene la prima volta che l’ho vista: china davanti all’armadietto dell’asilo, stava togliendo la sciarpa al figlio, la versione mignon del “mio amico Arnold”. Ricordo che ho pensato: che bel bambino. E poi: ma lei da dove è venuta fuori? E non perché fosse avvolta da quello che mi sembrava uno strato di sciarpe (e che poi avrei scoperto essere il suo cappotto) e non per quel copricapo che le nascondeva la sommità dei riccioli, uno di quelli multicolor che trovi solo alla fiera di inizio dicembre, negli stand di artigiani indie da Praga o Berlino. Era per via dello sguardo, di chi si è appena reso conto di aver perso qualcosa di importante, ma non sa bene qualcosa, ed è in bilico tra il disperarsi e il far finta di niente, perché tanto qualcosa lo doveva pur perdere. Ricordo che non l’ho salutata, forse perché in quello sguardo ci avevo visto qualcosa di mio. Niente di cui andare fieri.
Pochi giorni più tardi venni a sapere che c’era una mamma che mi doveva parlare e chiedeva di avere il mio numero di telefono. Era la mamma di Arnold. Non gli davano le ore di sostegno necessarie, qualcuno le aveva raccontato del precedente di Dorothea e della causa che avevamo vinto contro il Comune, e lei voleva sapere come muoversi. Mi rividi la foto che avevo scattato al bambino nella mia mente: non avevo notato che fosse autistico. Lei doveva essere una tosta, perché altre madri di bambini “disabili” non adeguatamente coperti dal sostegno, avevano preferito ritirare i figli oppure cambiare scuola.
Ci volle qualche giorno prima che mi chiamasse, eravamo ormai sotto Natale. Mi disse del bambino, i cui tratti autistici erano emersi subito dopo un richiamo vaccinale. Un bambino che stava cominciando a parlare, che andava in bicicletta. Lei madre single, libero professionista nel mondo della musica, in un anno aveva investito tutti i soldi che aveva da parte per avviare un percorso terapeutico, nel mentre che aspettava che Arnold fosse preso in carico in una unità di neuropsichiatria infantile. “Non riesco a guardare le foto di prima” mi diceva.
A volte dopo aver accompagnato Dorothea all’asilo, la scorgevo in fondo alla strada. Camminava a passo lento, lo stesso di quando spingeva il passeggino. Spingeva un carico invisibile. E in quel carico ci ho visto il mio, niente di cui andare fieri. Ma ormai è la nostra vita, e l’amicizia è venuta da sé.
Lu (è così che la chiamo) non è sempre stata così, lo so perché vedo su youtube i concerti che ha organizzato e che tuttora riesce a organizzare, per i più importanti festival di jazz, in tutto il mondo. È quel che si dice “una donna con le palle” e ha l’intelligenza propria di coloro che sanno trovare nella tragicità le premesse dell’umorismo. Come tutte le amiche donne “normali” condividiamo molte cose, a partire dal liceo classico, il pianoforte, un passato che ci ha portato in giro per il mondo e un presente che ci vuole confinate alla Bovisa. E ci scambiamo molte altre cose, non gli abiti o le borsette, ma informazioni su terapie e bandi regionali, contatti di medici, e medicine. Sorbendo una birra su una panchina che il sole ha reso rovente, raccogliendo olive con uno stecchino. Ci troviamo a ridere come due quindicenni, di cose che fanno ridere solo a noi. Delle singolarità dei nostri bambini, di quello che non ci alletta più, delle cose che abbiamo lasciato andare, tanto non ci mancano. Ci facciamo regolarmente di integratori, cose tipo Carnetina o Super-Nuthera, non ci vergogniamo nel confessarci di quel che trafughiamo dalle riserve alchemiche dei nostri figli e anzi ci mettiamo rispettivamente al corrente dei risultati prodotti sul nostro organismo, sempre più malconcio, e la nostra attenzione, sempre più latente. Lei mi chiama, euforica: “Prova l’acqua di Quinton, è favolosa per tirarsi su”. L’acqua di Quinton, che sarebbe un po’ come dire l’acqua di Lourdes, per noi. Ci confessiamo qualche sogno o speranza residua, tipo la Cura che faccia rinascere i nostri figli, un uomo veramente uomo, una fonte di guadagno stabile. Abbiamo anche il nostro gergo pseudo-adolescenziale che ha a che vedere con la quotidianità e chi la anima: lo strazzamutande (farmacista piacione), Jabba (la panettiera), i fenomeni (i nostri figli), Santo Nicola (un medico che segue entrambi i nostri fenomeni) e poi ancora il Minollo, il Microbiota e via di seguito.
Is there life on Mars? Si chiedeva David Bowie. Nel nostro piccolo possiamo rispondere di sì. O, almeno, finché si ride, nonostante tutto, c’è speranza.
in alto un’immagine dell’artista turca Hülya Özdemir