Ogni anno nei primi giorni di dicembre la mia parte sobria e schiva viene sopraffatta da una frenesia variopinta e psichedelica. In altre parole, vado in fissa con le “lucine”. Niente atmosfera soffusa e raccolta di candele da inverno nord-europeo: io voglio l’accendi-spegni psicotico e multicolore che impazza nei led, dall’albero agli addobbi delle finestre. E non perché mi dia allegria, ma perché fa da contrappunto al buio, ché anche questo a dicembre mi sta bene. Se dovessi buttarla lì e dichiararne il motivo supposto, sparerei che questo ha origine remota. Tra i miei primi ricordi c’è quello di un alberello con piccole lampadine colorate (ho sempre pensato che fossero state colorate a mano) che dava luce, a lampadario spento, nella casa da cui traslocammo quando avevo meno di tre anni.
Ma a richiedere le lucine non è la mia fanciullina interiore, piuttosto la bambina degli anni settanta. Non si tratta di uno stato sempreverde dell’animo, ma di un connotato storico, il substrato in cui sono stata concepita e in cui ho trascorso la maggior parte della mia infanzia. Sono avvezza alla fluorescenza, e anche se mi mette il mal di mare, non la rinnego: l’ho succhiata con il latte, e i nei gradini del mio DNA si alternano giallo, nero, ciano e magenta. Ho ancora il ricordo (e la struggente nostalgia) delle radio libere, avessi avuto vent’anni, allora, chissà cosa non avrei fatto. Ma ne avevo meno di dieci e mi sono limitata alle lucine e al fatto di sognare quando Finardi canta tremulo ” Musica ribelle”.
La stroboscopia mi mette in soggezione non più della prossimità di un album di Paperino alle Città Invisibili di Calvino nella mia libreria. È l’imprevedibilità, il non definitivo, il destrutturato che si riaggrega come gli piace, il non convenzionale. Vorrei essere dichiaratamente così ogni giorno dell’anno, non solo nel periodo di Natale. Anche senza radio libere, e senza programmaticità.