Storia di un albero che non c’è più

albero
Questa è la storia di uno di noi, nato per caso in una striscia di terra ancora selvatica. Terra di arbusti spinosi e di erba che in estate cresceva oltre il metro e più e al termine dell’autunno s’afflosciava mettendo allo scoperto bottiglie, lattine e altri rimasugli di adunanze clandestine. Era cresciuto a ridosso della rete metallica con cui qualcuno aveva recintato lui e altri compagni, non si sa bene se per contenere il loro avanzare o se per preservarli dalle intrusioni aliene.

Il suo fusto alto e largo dichiarava un’età piuttosto veneranda per uno della sua specie. Per anni aveva ascoltato la sirena d’inizio e di fine giornata, aveva guardato le tute blu entrare e uscire dallo stabilimento oltre la strada. Aveva offerto ombra nella pausa del mezzogiorno per una pennichella o una sigaretta. Poi la sirena aveva smesso di suonare del tutto e lui era rimasto lì, affacciato all’asfalto, ricoprendolo con la sua chioma, nostalgico di un contatto, proteso a uno scambio.

Questa è anche la storia di una ragazza che ogni mattina passava in bicicletta tra una striscia di terra ancora selvatica e il vasto parcheggio di una fabbrica in disuso, smangiato dalla gramigna che pulsava da sotto la crosta di cemento. Alla ragazza mancavano gli alberi. E per questo passava volentieri per quella via, diretta al lavoro, perché a un certo punto avrebbe trovato sulla sua testa i rami che stendevano un tunnel tutt’intorno, per diversi metri, e a maggio si facevano pesanti di grappoli bianchi, gli stessi che profumavano le colline in cui era cresciuta. Si divertiva ad allungare la mano in alto per solleticare i petali e in quel contatto si sentiva di nuovo bambina e leggera. In estate i fiori si trasformavano in baccelli che poi esiccavano e con l’arrivo dell’autunno, al passaggio del vento, producevano un suono secco, sommesso, di commiato alla bella stagione. Ma anche quando non c’erano foglie alla ragazza giungeva il saluto dell’albero, che consisteva nella sua stessa presenza.

La ragazza aveva poi smesso di andare in ufficio con la bicicletta. Semplicemente era rimasta a casa. Non era nemmeno più ragazza, ormai. Ogni tanto però le capitava di passare per quella strada, e quando arrivava in prossimità della vecchia acacia, o gaggìa, come la chiamano dalle sue parti, si rinnovava un incontro tra vecchi amici.

Questo settembre, al rientro dalle vacanze, dallo stampatore qui all’angolo mi è caduto l’occhio su una petizione. Per cosa, il negoziante non ha saputo spiegarmelo bene. Vogliono tagliare degli alberi, ha buttato lì, con il fumo della sigaretta. Ho firmato, perché anche quel poco d’informazione era sufficiente per firmare.

Qualche settimana più tardi sono passata per via Caianello e la striscia di terra si è mostrata ai mie occhi: nuda, bruna. Niente più erba, niente più arbusti. Solo lui resisteva, nel suo angolo, affacciato all’asfalto, proteso verso il parcheggio della fabbrica. Almeno l’avevano risparmiato, e questo era un sollievo. Forse per rispetto alla sua età, o al suo valore simbolico. O forse c’era bisogno di una tecnica speciale per sradicarlo. E alla fine l’hanno messa a punto perché dopo alcune settimane non c’era più nemmeno lui. Era malato, era pericoloso?

Quella terra che alcune famiglie avrebbero voluto trasformare in orto cittadino adesso è recintata da una transenna oltre la quale svetta un cartello con il disegno di un palazzo dal nome futuribile e benaugurante.

Ma se andate su Google maps, almeno per qualche mese ancora, il mio amico lo potete vedere ancora. Io lo ricordo qui.


In alto “Never give up” di Milo, “esposto” a Santiago.

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