Ogni concerto di musica classica inizia prima di tutto con il silenzio. Quel vuoto che risucchia ogni suono, che pulisce l’aria rendendola immacolata come un foglio in attesa del primo segno. Poi affiorano le note, luccicanti come i sassi lasciati da Pollicino.
Venerdì scorso il mio Pollicino era Dorothea. Con la sua piccola fisarmonica, strumento non canonico per un’orchestra sinfonica, ha dato inizio alla musica. In realtà non si trattava di un vero e proprio concerto, e nemmeno di un saggio. Era un’occasione per noi genitori di assistere a quello che i nostri figli avevano fatto per sei mesi, in ambito di propedeutica orchestrale, che è una sorta di musicoterapia: ogni bambino, affiancato da un musicista, sta a uno strumento e, seguendo i comandi del direttore d’orchestra, fa il suo assolo, oppure si accompagna ad altri.
Dorothea dallo scorso novembre è parte di un gruppetto di tre. Il più grande ha dieci anni, lei, che ne ha sette, è la più piccola. Ogni venerdì si ritrovano per quarantacinque minuti nella sala della scuola di musica di Allegromoderato. A turno si cimentano con strumenti a corde e a percussione: dal violoncello al violino, dalla marimba, ai timpani, al metallofono e così via.
Ogni volta il maestro propone come filo conduttore un’opera tra quelle di solito proposte all’ascolto e all’immaginazione del giovanissimo pubblico, tipo il Carnevale degli Aninali, o Petrushka, o Pierino il Lupo.
Noi mamme tutti questi mesi ce ne siamo rimaste al di là della porta e coglievamo la musica, le parole di invito del maestro: “Ecco che avanza il leone: entra il contrabbasso!”. E ci arrivavano le note prodotte da uno dei nostri figli, che non erano certo quelle dal pentagramma di Saint Saens. Ma l’importante in questo ambito non è l’esecuzione “ortodossa” quanto l’intervento del singolo nell’insieme. Non le note, ma il principio di base che sottende al fatto di suonare con gli altri: il corrispondere, l’armonizzarsi con il resto del gruppo, il momento di pausa alternato a quello di esecuzione.
Venerdì dunque eravamo lì dentro. Il maestro al di là della coda del pianoforte si è rivolto a Dorothea, che si era portata il suo strumento preferito da casa, e le ha detto: “Comincia tu, che sei pronta a partire!”. E lei, compiaciuta e soddisfatta, seduta in prima linea, è partita: via a comprimere e allargare il mantice, accompagnando la melodia principale. Il solito Do-Re-Do-Re a cui io mi sono ormai assuefatta e forse i vicini di appartamento non ancora. Quel Do-Re-Do-Re che però all’improvviso era diventato altro. Non più espressione selvaggia e ludica, ma esecuzione disciplinata e composta. Quando il maestro le ha detto di smettere lei si è fermata, per poi riprendere al momento giusto in un momento corale, dove il motivo del pianoforte si faceva strada tra strappi e vibrati. Il magma della musica.
E così siamo andati avanti per quasi un’ora che è sembrata un istante. Dorothea ha cambiato postazione, per sostenere con il petto un piccolo violoncello. Archetto in mano, lo sguardo rivolto sempre al maestro. La fisarmonica adesso era in mano al suo compagno Alberto, concentrato e serio come un Galliano in miniatura. Claudio, il più grande, preferiva rimanere fisso alla marimba.
Appoggiata al muro assistevo con l’animo teso e allargato come un tendone da salvataggio, neanche fossi alle audizioni per entrare a far parte della filarmonica giovanile dei Berliner. E di fatto non c’era nessuna differenza, nessuna.
E mentre Pierino ha incontrato l’anatra e il gatto e infine il lupo noi genitori che ci avevamo creduto a questa avventura, non osavamo quasi guardarci negli occhi, vergognosi di una gioia che se non la vivi non la puoi capire. E questa era solo l’overture.
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L’illustrazione in alto è di Amy Rice: “Learn to Play”.