Per entrare nella via in cui abito bisogna passare dal semaforo-dittatore. Oggi me ne sto lì, sei veicoli più avanti a me occhieggia il rosso. Sono rassegnata, anche un po’ trasognata… A quel punto mi accorgo della foresta. Chissà chi avrà avuto l’idea, è stato il primo pensiero. Chissà se erano tutti d’accordo, il secondo. E mi rispondo che se anche lo erano, adesso è difficile che lo siano ancora. Perché nello spazio divisorio tra i due palazzi, quel trompe-l’oeil aerografato di alberi stilizzati, tipo gotico rinascimentale poteva funzionare, a livello teorico, ma c’è qualcosa, nell’esecuzione, che ne vanifica il tentativo di alleggerire la facciata. Ok, si voleva dare l’effetto di una breccia, tipo giardino misterioso oltre il muro e lo spray ha anche tracciato delle rose rosse, che salgono attorno alle finte crepe e allo scasso. Ma il tutto è cupo, sgraziato. C’è un limite anche all’arte con la bomboletta. Le quinte degli alberi che si succedono in prospettiva sono bucate al centro da una macchia nera, simile a un occhio d’abisso cieco. Un’oscurità aggettante che nemmeno il verde neon delle foglie riesce a rinfrescare. E verde, per mia fortuna, è anche il semaforo, l’auto che ho davanti si schioda dallo stallo e io immediatamente le vado dietro. Nessun rimpianto di lasciarmi alle spalle quell’affresco urbano.
Passo l’incrocio, metto la freccia a sinistra e mi rumino come un chewing-gum che a volte proviamo ad accamparci delle illusioni, a tutti i costi. Illusioni a tal punto posticce e grossolane che la realtà, in confronto, è così lucida ed essenziale da apparire per quello che è: un capolavoro.
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L’opera è di Matthieu Bourel
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