Lei è la bambina della musica: chitarra, armonica a bocca, tamburi e tamburelli, campane colorate, xilofono, kalimba, guiro, flauti e sonagli, accordéon, tromba, ocarina. La sua orchestra sta sul ripiano più alto del mobile dei giochi.
Mi chiede di prenderle la scatola rosa in cui è stipata e diamo vita a improvvisazioni, a componimenti, a sperimentazioni. World Music nel senso proprio del termine: nel nostro battere e soffiare abbracciamo il mondo intero, rievochiamo l’abc di tutti i generi e ritmi.
Gli strumenti che impostano la sessione sono l’accordéon e l’armonica a bocca. Manovrare il mantice e il contemporaneo pigiare con le dita le richiede un impegno psicomotorio non da poco, ma la vibrazione degli armonici è così fascinosa è così potente su di lei da farle comunque infilare la mano sinistra nella cinghia e il pollice della destra nell’anello vicino ai tasti. Il suo torace si apre e si contrae assieme alla distensione e pressione del soffietto, e già in sole due mandate evoca nostalgie da Ville Lumiere e inviti a danze in feste contadine. Finché lo sforzo prevale e le note sfiatano debolmente. Allora fa scivolare lo strumento a terra, e balza leggermente sulle ginocchia per passare al gioco-strumento successivo.
Il recente feeling per l’armonica nasce per l’effetto-Treves di un cd che da due mesi sta fisso nell’autoradio. Dorothea tenaglia l’armonica con le labbra. E soffia e aspira e soffia aspira: “DO-RE-DO-RE-DO-RE”, come un annuncio bitonale su per dei tornanti di montagna.
Il blues di fatto le si addice. È elegia. Celebrazione alchemica che trasforma braci e ceneri in nuova vita.
Lei poi ha il suo stile: con una mano tiene lo strumento, con l’altra ne batte il dorso usando il palmo, a dita tese. Il passaggio dell’aria si fa incerto, tremolante. Non saprei dire che tecnica sia, ma le conferisce un che da professionista, soprattutto per la sicurezza e la padronanza con cui compie il gesto. Arriva poi il momento in cui si sblocca dall’antifona-clacson e, come posseduta, comincia a far scorrere lo strumento a destra e a sinistra, finché, con uno strappo finale, lo sgancia dalla presa della bocca. E in questo stacco subitaneo di solito ha termine la performance.
Esecuzioni mirabolanti, fantasiose. Come quelle con cui si lascia andare al pianoforte. In casa abbiamo un Yamaha, a muro, che sembra fatto apposta per stare nel poco spazio che abbiamo a disposizione. Lei non lo suona solo con i piedi (di questo ho scritto in: https://baciamipiccina.wordpress.com/2015/02/23/suonare-con-i-piedi/) A volte distende le braccia cercando di congiungere le note delle ottave estreme e siccome anche così non ci riesce allora oscilla da un lato all’altro, ciondolando lateralmente, per poi di colpo tuffare le dieci dita al centro, con uno schianto futurista.
Esecuzioni rare e irripetibili. Mi verrebbe quasi il paragone con l’estemporaneità di Keith Jarret. Non fosse che il concerto di Colonia non sono mai riuscita a reggerlo.
Treves ho avuto il piacere di averlo a cerimoniare al matrimonio dei miei (all’epoca era assessore in quel di milano). Ricordo ancora quella giornata con gioia…molto blues.
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wow che fortuna!!
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era in jeans e giacca e augurò loro una vita piena di sesso droga e rock’n roll 🙂
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ah ah mitico Fabio!
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bellissimo! ed è stato così?
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