Magnifiche presenze

presenze
La nostra è un’abitazione a due piani. Il primo si estende su tutta la superficie calpestabile, fino a circa un metro e cinquanta d’altezza, vale a dire la portata di mano dell’inquilina piccola. Il secondo sta abbarbicato alle pareti, dal metro e trenta in su, dove si è ritirato il territorio dell’inquilina grande. C’è dunque una ventina di centimetri di melting pot, dove la Pimpa incontra Carver e i cd dei REM (sì, ho ancora cd che girano per casa) si scambiano di custodia con le compilation di Crapapelata.

Ed è in questo territorio di mezzo che Dorothea prende contatto con un mondo misterioso, stratificato, fatto di immagini e oggetti che l’attraggono o la respingono, e sul cui significato s’interroga. Sono resti di mondi lontani che giacciono su mensole e scaffali, reperti a testimonianza di epoche trapassate, rimasugli tratti in salvo verso le rive della memoria.

Ultimamente, ogni qualvolta si mette seduta perché le infili le scarpe, lei afferra dalla libreria una cornicetta rotonda di circa sette-otto centimetri di diametro. È di plastica, una volta era argentata, ma adesso ha tante macchioline verde-marrone, con effetto vagamente shabby chic.

Un giorno, chissà come, l’ha notata ed è da allora che è cominciato il rito:

“Comesichiama” mi domanda, nel suo modo soffiato.

“Cornice”

“Comesichiama” ripete. Non sono stata esaustiva, ho omesso il dettaglio più importante. C’è un ritratto al centro: una testa, in bianco e nero. Fronte spaziosa, naso aquilino. Labbra sottili, occhi velati.

“Si chiama Giacomo”

Inizio anni novanta. Un ritaglio dall’antologia del Liceo.

“Era un poeta” spiego, consapevole che forse è la prima volta che sente la parola poeta e per lei dunque non vuol dire niente. Ma intanto la introduco, e già che ci sono aggiungo: “Era anche uno scrittore e un filosofo.” È un semino che lascio cadere nella terra.

“La macchina di Giacomo” propone lei, seria, e intanto mi porge la cornicetta. Bella l’auto di Leopardi. Monovolume, monoruota. La parcheggio al solito posto.

A questo punto lei indica di nuovo:

“Comesichiama”

Seguo la direzione del dito. Altro bianco e nero, altro ritaglio dal volantino di una mostra remota. Anni cinquanta, ciuffo di capelli a far da tettoia a uno sguardo penetrante, che lancia una sfida.

“Questo qui?”

“Sì”

“Pier Paolo”

“La vuoi prendere”

Gliela porgo: “Anche lui era un poeta. E un regista.”

Le scarpe adesso sono allacciate. Dorothea si alza in piedi, allunga un braccio, prova a rimettere Pasolini nell’angolo da dove l’avevo preso. La foto scivola giù, la raccolgo, la sistemo. Pier Paolo adesso se ne sta di nuovo comodo, appoggiato alle coste di vecchie brossure come allo schienale di una poltrona démodeé. Lei gli scuote la mano davanti:

“Ciao. Ci vediamo presto.”

Lui rimane imperturbabile, ma, ne sono certa, è solo una questione di immagine.

———

L’illustrazione è di Matt Macabre

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