Dorothea si guarda attorno e scopre la moltitudine delle cose e delle persone attraverso la loro identità onomastica. Punta il dito e spara:
“Come si chiama?”
Non fai in tempo a risponderle che già indica qualcosa o qualcun altro. L’intonazione è piuttosto perentoria:
“Come si chiama”
Per memorizzare torna indietro e riformula in un soffio:
“Comesichiama”
La sua attenzione è capillare. Inquadra, parcellizza il dettaglio rispetto al tutto, spesso mettendomi in difficoltà.
“Comesichiama”: siamo sull’autobus, la punta del piccolo indice pigiata contro la striscia di metallo che inquadra il vetro della finestra accanto alla fila dei sedili.
Ci penso e poi dichiaro: “Telaio”.
L’importante è dare a vedere che si è convinti di quanto si dice.
Telaio dopo varie riprese viene registrato. Capisco che un nuovo file è stato immesso quando lei stessa ripete la parola, dopo averla introdotta dalla domanda di rito:
“Comesichiama. Telaio”
Ripete con sicurezza, con senso di proprietà e cioè come possesso: la sua personale cartina geografica del mondo conosciuto si è arricchita di un nuovo territorio.
L’acquisizione del nome equivale all’intromissione in sé dell’essenza stessa di una cosa o di una persona, a prescindere dalle relazioni con le altre entità. Un universo dove gli elementi non hanno un ordine definito, semplicemente esistono. Come nei ritratti che lei disegna sul foglio: con un gesto più o meno circolare delinea il volto, ma gli occhi il naso e la bocca finiscono sempre al di fuori di esso.
A significare che tutto esiste prima di qualsiasi collocazione funzionale.