Per un po’ è andata avanti che mi diceva: “Accendiamo la luce nera”, “Spegniamo la luce nera”. Mi domandavo che cosa fosse mai, questa luce nera. Un interruttore, un abat jour? “Luce nera” aveva un suo fascino, tuttavia, come ossimoro, non era privo di un risvolto inquietante. L’ossimoro per me non stava tanto nel fatto della luce associata al colore che tutto assorbe, quanto che lei, così piccola, nominasse ciò che ai miei occhi rappresentava l’annichilimento di ogni speranza.
“Spegniamo la luce nera”. E mia madre mi guardava allarmata: “Che cos’è la luce nera? Cerca di capirlo”.
Io ci ho anche provato a ricercare il significato di questa formula enigmatica, esplorando innanzitutto che cosa fosse per lei il colore nero: nella condizione in cui mi trovavo ero portata a pensare in negativo. Poi ho tralasciato, vuoi perché la piccola non sembrava segnata da traumi particolari, vuoi perché lei stessa, attraverso le parole, è capace di regalare immagini misteriose e non-sense divinatori del tipo: “Ciao, io sono la finestra”.
Poi, sabato scorso, se n’è uscita con una variante: “Spegnere il buio”, ha detto. Era mattino presto, stavamo nella penombra della stanza da letto e ho reagito in modo intuitivo, funzionale, ho pigiato l’interruttore. Lei ha sorriso, con quel suo modo subitaneo, raggiante, con quella fibrillazione che la fa sobbalzare. Dunque, finalmente c’ero arrivata. Senza ulteriori elucubrazioni. Come avevo fatto a non capirlo prima che Dorothea attribuisce al buio una funzione “agente”. Non una assenza di luce, ma una presenza di oscurità. Il buio, che quando la luce è accesa non si può vedere, ma esiste e pertanto può anche essere attivato o disattivato.
C’è una luce bianca (o gialla), c’è una luce nera.
È domenica mattina, siamo al parco giochi più bello che abbiamo a disposizione qui nei paraggi: un grande lenzuolo verde incastrato tra una rete ferroviaria e un rione suburbano, quello che rimane del giardino di una villa che fu residenza nobiliare. Dorothea sta sul torrione di un castello di legno, affacciata a quella bocca-riquadro che si spalanca sullo scivolo, lingua ripida d’allume.
Canta, si sta raccontando tutta una storia, e chissà che storia, in un gioco imperturbato, perché il tempo è umido ed è già passato mezzogiorno. A un tratto alza gli occhi verso di me e ha uno sguardo d’intesa e poi, sicura, quasi baldanzosa prorompe in un: “Ciao, buio!”
E non so dire se sia un saluto di commiato o, piuttosto, di incontro.
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L’illustrazione è di Itsuko Suzuki
intenso, come sempre 🙂
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Grazie, Chiara! buona giornata!
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stupendo, tutto stupendo!
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