Ce l’avremmo anche fatta a piedi, si tratta solo di una breve salita. Ma vuoi mettere un giro sulla jeep? E poi fa parte del pacchetto. A bordo siamo in cinque: Dorothea e io più tre agenti. Avranno su per giù la mia età, ma da quanto ho capito dai racconti che facevano a Gian Luca prima della partenza, i loro figli vanno già alle superiori. Nello stretto dell’abitacolo mi salvo dall’imbarazzo mostrandomi più estroversa e incline alle parole di quanto in realtà non mi senta, e tuttavia calibro e doso i termini: i miei interlocutori rappresentano pur sempre la Guardia di Finanza. Mi va bene che il tragitto non dura più di cinque minuti. Dorothea osserva un po’ fuori dal finestrino, un po’ tutt’intorno a sé. Stringe tra le mani la Puffetta che abbiamo comprato a un mercatino di giocattoli usati, all’inizio della vacanza. Un piccolo obolo versato ai bimbi che avevano allestito la bancarella su un prato e di cui lei aveva fatto scempio, come Gozzilla tra i grattaceli di una metropoli. Un euro e cinquanta in cambio di una bambolina di pezza. Senza regolare scontrino, dunque acqua in bocca. Nella zona del portabagagli c’è la gabbia con il cane lupo per i ritrovamenti nelle spedizioni di soccorso. È una femmina adulta, di piccola taglia. Il finanziere addestratore mi dice che è in grado di fiutare un corpo anche attraverso una profondità di cinque metri di neve, particolare rassicurante fino a un certo punto. Si chiama Luna, che è un nome che ho sempre considerato più per un essere umano. Non a caso la prima Luna che mi viene in mente è proprio l’insegnante di arrampicata di Dorothea: è come se ci fosse sempre una Luna a prendersi cura della mia bambina, quando si tratta di ascendere.
Il punto d’arrivo è un prato in piano, battuto dal sole, delimitato da arbusti. I finanzieri salutano un uomo che imbraccia una fresa con cui sta tagliando l’erba, altissima, sul sentiero, probabilmente proprio in occasione del nostro passaggio. Ci tengono a presentarmelo: è un loro collega andato da poco in pensione. Gli stringo la mano, che mi protende senza esitazione, dopo essersi tolto il guanto protettivo. Nell’immediatezza di questo scambio è come se ricevessi l’accoglienza della montagna: l’uomo ha una presa salda, forte. Ha occhi grandi, di un azzurro leggero, quasi lilla. Due rughe sulla fronte, parallele alle sopracciglia, che ricordano le tracce lasciate dagli sci sulla neve. Si china, saluta Dorothea, che saltella. Non gli spiego niente, immagino che lui sappia il motivo di tutto questo dispiegamento di forze e persone. Dorothea sembra confusa, ma per nulla intimorita. Ci raggiungono Marcella e Gian Luca con le figlie, Benedetta, issata sullo zaino-trasportino e Chiara, che se ci sarà tempo proverà anche lei a salire sulla roccia.
Gian Luca, che è stato carabiniere nel periodo del servizio militare, si sente tra commilitoni, e ci tiene a dettagliare tutte le cime nei dintorni su cui è stato. Mi giungono le sue parole, il suo snocciolare nomi come se si trattasse della formazione di una squadra di calcio. Controluce, davanti a noi, si stagliano le Pale di San Martino. La prima volta per me in questi luoghi.
Tutto è nato da una telefonata, il giorno prima. Sull’ultima pagina del giornalino delle attività per bambini nella Val Fiemme ho letto dell’Associazione SportAbili. Chiamo subito, spiego che vorrei far arrampicare mia figlia. Quello che ho in mente è una lezione. Per riprendere nella natura quei rudimenti che la piccola ha appreso in città, in palestra.
La responsabile, Gabriella, mi richiama dopo un’ora:
“Tutto a posto. Facciamo domani, con due guide della Guardia di Finanza.”
“Come due?”
“Eh, be’… una fa sicurezza, l’altra arrampica con sua figlia.”
Ostia, non avevo pensato a tanto.
Le guide preposte all’accompagnamento si chiamano Dennis e Sandro. Penso che avranno di sicuro dei gradi, e il fatto che possiamo permetterci la confidenza di chiamarli semplicemente per nome è il nostro piccolo privilegio: come se ogni convenzione fosse sospesa. Questo è un giorno speciale, che controbilancia gli usuali “equilibri”: di solito quando Dorothea e io, durante feste o raduni all’aperto, ci troviamo assieme a dei bambini “normali” questi ultimi occupano il centro della scena. Invece, adesso, è lei ad avere tutta l’attenzione. Dennis e Sandro l’aiutano a infilare l’imbragatura. La piccola l’ha già indossata un paio di volte, con Luna, salvo poi rifiutarsi di fare qualsiasi passo sulla parete sintetica con quella roba che le cingeva la vita e le gambe.
Hanno un’accortezza paterna, questi uomini. Con pazienza e delicatezza assecondano i gesti lenti della bambina, l’aiutano ad alzare il piede per far passare le cosce nelle cintole, Dennis le sposta una ciocca di capelli dietro alle orecchie dopo averle allacciato il caschetto.
Ricevo un caschetto anch’io, e, secondo quanto mi viene richiesto, accompagno Dorothea per i primi gradini.
“Guarda che bel fiorellino che c’è lì, andiamo a prenderlo” prova Sandro.
Dorothea avanza, ma irrigidita, e intanto emette un suono tremulo, lamentoso. Le guide l’aiutano a procedere, cautamente, la sostengono tenendola per mano. Proseguono lungo un breve tratto in costa.
“Scendere” mugola lei.
“Va bene, adesso andiamo dalla mamma.” L’aiutano a girarsi verso valle, con i piedi che sporgono da una lastra di circa un metro, la portano ad abbassarsi, a scivolare giù, verso di me.
Dorothea si vuole subito togliere il casco. L’imbragatura, come è stata messa, così viene sfilata. Un po’ mi spiace che tutto sia finito tanto in fretta, che non se la sia sentita di proseguire, anche se avevo già messo in conto che sarebbe potuta andare in questo modo. Tutta questa impresa, tutta questa gente. Ma sono esentata dal giustificare, un simile risvolto in casi come il nostro è ipotizzabile.
Mi consolo pensando che è già una bella cosa che lei sia entrata in contatto con la roccia, che si trovi qui, che tutte queste persone si siano prese cura di lei.
A questo punto è la volta di Chiara. Mentre è in parete le faccio molte foto. Otto anni, figlia di due che hanno la montagna nel sangue. Va su come niente. Vederla è bello e doloroso. Continuo a scattare, anche quando ridiscende. Disinvolta, quasi spavalda.
Le guide sono già di nuovo dietro a mia figlia.
“Te la senti di riprovare?” le fa Sandro.
Dorothea non risponde. Con la coda dell’occhio ha sicuramente visto qualcosa dell’impresa della sua quasi coetanea. Non si oppone quando le rimettono l’imbragatura. Concordiamo un cambio di tattica: precedo la sua salita. Mi piazzo un paio di metri più su. “Andiamo verso la mamma” la incoraggiano. Dennis la scorta: “Metti un piedino qua…”. Lei avanza, allunga le mani, richiama le gambe. Quasi senza bisogno di suggerimenti. Arriva fin su da me. Mi abbraccia.
“Bravissima! Lo facciamo ancora una volta?”
Come prima le guide la fanno sdrucciolare giù per un lastrone. Riparte. Stesso percorso, adesso s’è anche impratichita e quindi va veloce. Io la riprendo dall’alto, trattenendo il fiato. Visto che non oppone resistenze ci proviamo ancora una volta, spostandoci su un altro spigolo, provando un’ascesa leggermente più lunga. La piccola se la cava ancora meglio. Si erge sulla roccia di arrivo:
“Basta, finito” sentenzia.
“Va bene” concordo, la faccio scendere verso Dennis, che l’accoglie.
“La cosa bella è che afferra bene la roccia” commenta Sandro.
Siamo tutti soddisfatti, ed è anche arrivata l’ora di andare a pranzo. Tiriamo su gli zaini, ci avviamo verso la jeep.
L’erba sul sentiero è ormai tutta tagliata.
Ti consiglio caldamente un film che esalta in modo magistrale la bellezza della montagna: In mezzo scorre il fiume. Buona serata! 🙂
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Sarà fatto! grazie mille del consiglio, buona giornata
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Se ti va, poi fammi sapere come l’hai trovato. Se invece non dovessi più sentirti, per me avertelo fatto scoprire è già una grande soddisfazione. Grazie a te per la risposta! 🙂
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