Noi siamo quelle che in vacanza, subito dopo esserci svegliate, facciamo una croce sulla data del giorno. Meno uno. In fondo alla fila dei numeri da cassare c’è il simbolo di una casetta. Traccio il segno, Dorothea ride, salta di gioia. La vera meta per lei è proprio l’essenzialità di quella rappresentazione da scuola materna, a pastello: triangolo rosso per il tetto, quadrato giallo per le mura. L’Universo della sicurezza, la pangea della tranquillità. Perché tutto quello che lei agogna è il divano nel suo soggiorno, i suoi giochi, i suoi pupazzi. Questo cambiare dimora, condividere un appartamento, celebrare il rito di ogni pasto assieme ad altre quattro persone le appare un’insensatezza. E perché mai mamma si ostina a preparare lo zaino tutte le mattine, a riempire la borraccia, a scodellare quella frase accompagnata da un sorriso che non promette nulla di buono: “Vedrai che bello!”.
A prescindere dall’attività proposta, persino quello che più le piace, tipo andare sullo scivolo del parco giochi, o a mangiare un gelato, lei vuole sapere che cosa avverrà subito dopo. La sua inchiesta è tuttavia discreta, discorsiva, subordinante. Si parte dal primo mattino:
“Dorothea, dai, vieni a fare colazione”
E lei: “Quando finito di fare colazione…”
“Ci laviamo e andiamo a fare la gita.”
“Quando finito di fare la gita…”
“Torniamo a casa.”
“Quando finito di tornare a casa…”
Ho provato a sperimentare di darle corda e vedere se a un certo punto si arrendesse di fronte a una prospettiva che andava verso l’infinito, ma lei no, non mollava. Avrebbe attraversato dieci giorni interi, a forza di “dopo”, fino ad arrivare alla conclusione che più le stava a cuore: tornarsene a casa.
Considero questa sequela indagatoria come una variabile della successione dei “perché”, tipica dei primi anni di crescita. La differenza sta nella direzione: a Dorothea non interessa andare indietro, verso l’origine delle cose, lei tende in avanti, alla conoscenza di quello che il futuro le riserva.
Il calendario è servito da orientamento. Soprattutto nei primi giorni. Nel momento stesso in cui l’ho approntato Dorothea è sembrata da subito più distesa. L’idea del ritorno diventava realtà tangibile. La mia amica Marcella, che ci faceva compagnia, è entrata in camera nostra e buttando l’occhio sul foglio-poster che ho attaccato su un’anta dell’armadio ha ridacchiato:
“Come in carcere.”
E pensare che in vacanza ho sempre cercato di evitare di contare i giorni. Circonfondevo il succedersi delle ore di un alone vago, per contraffare nella nebbia dell’indeterminatezza una specie di eternità. Con il calendario alla mano questo non è possibile, ti pone di fronte a quanto hai fatto e a quanto ti resta. È spietato, certo, ma non illusorio.
Giorno dopo giorno avevo di fronte il calcolo di quando rimaneva non dal rientro in ufficio, ma dal distacco da mia figlia. Quella casetta stilizzata in realtà indicava uno stato temporaneo, appena due giorni, per Dorothea, di divano in soggiorno prima di una nuova partenza, di una nuova destinazione. Solo che adesso non ci sarei stata più io al suo fianco. Secondo quella spartizione di pari misura che va sotto il nome di affido congiunto, avrebbe trascorso la seconda metà del mese con il padre. Tutto molto sensato e utile e “non solo alla bambina”: che è quello che si può dire per convincere una madre a prendersi “i propri spazi”.
Ho preparato le valigie la sera prima, per essere sicura di riuscire a partire l’indomani di buon’ora. Dopo aver richiamato l’attenzione di Dorothea, che stava giocando sul letto con Lotso-grande, ho tracciato l’ultima X, tra il trionfante e il nostalgico: “Si torna a casa!”
“La seggiovia! – ha piagnucolato Dorothea – Non andiamo sulla seggiovia?”
“Dorothea, ma hai capito? Andiamo a casa!”
“No, non voglio!” e ha affondato la faccia nella pancia dell’orso.