Circa quattro mesi fa ho conosciuto C., che è madre di un’adolescente con un quadro clinico per certi versi simile a quello di Dorothea. A organizzare l’incontro è stata Rituzza, un’amica che ha il dono di “lasciare fare alla vita”.
C. era proprio come Rituzza me l’aveva descritta: donna tutta d’un pezzo, che non solo non ha avuto remore nel raccontarmi alcune delle sue esperienze personali (e di ascoltare le mie), ma mi ha anche passato dei consigli importanti a proposito di certi vantaggi per le persone disabili.
Non era la prima volta che mi trovavo a ricevere indicazioni da parte di genitori di bambini o ragazzi speciali. Un anno prima, quando s’era trattato di fare l’esposto al Comune per ottenere tutte le ore di sostegno scolastico, un’ Associazione mi aveva messo in contatto con alcune madri che stavano affrontando o avevano affrontato lo stesso passaggio. Già allora mi aveva colpito il grado di comunicazione che riuscivo a stabilire con queste persone mai viste in vita mia, e che forse mai avrei propriamente incontrato. C’era il telefono a fare da tramite, ciononostante, nel breve arco di una mezz’ora, avveniva uno scambio che andava ben oltre quello che la sola parola riesce di fatto a veicolare. La storia che ciascuna di noi si portava dentro amplificava la trasmissione, e pur non conoscendoci e non sapendo quasi nulla l’una dell’altra bastavano pochi accenni per restituire l’una all’altra il quadro preciso di chi fossimo: e i quadri coincidevano. Clamorosamente.
Tuttavia mantenevo delle resistenze circa il fatto di ampliare il mio giro di amicizie ai miei consimili: li percepivo come una specie di esercito partigiano, relegato ai margini, con indosso un’uniforme color afflizione. Ero determinata a continuare il mio percorso tutto speciale, da cellula autonoma. Stavo a pancia a terra, al riparo di cespugli di ginepro, con in carica pallottole di paura, senza considerare il vantaggio che avrei avuto nel trovarmi con qualcuno di fianco pronto a passarmi il fiaschetto della grappa, e ben informato su certi rifugi dove potersi riparare nella notte.
Alla fine della serata C. mi ha invitato a prendere parte a una riunione del gruppo di genitori con cui periodicamente si vede, nella cittadina in cui abita. Non c’era bisogno di tanti dettagli perché già mi figurassi un cinque-sei persone sedute una di fianco all’altra, affacciate allo spazio vuoto di un cerchio che mai sarebbe riuscito a rimpiazzare l’abbraccio di cui avrebbero avuto bisogno, ma il piglio sicuro e asciutto con cui C. mi aveva messo al corrente della sue vicende mi facevano supporre che il gruppo di mutuo aiuto non dovesse essere necessariamente un ricovero per il pianto, ma mi potesse fornire una preziosa possibilità di andare oltre allo stretto orizzonte della mia esperienza personale. Così quando un mese più tardi è arrivato il giorno dell’evento mi sono organizzata di tutto punto per far venire la storica babysitter di Dorothea, la Vale. Nonostante facesse freddo e fosse già sera e dovessi andare fuori città, fino al centro di quella cittadina dove le vie prendono il nome da certi martiri civili, sono riuscita a raggiungere con puntualità C., sotto casa sua, all’indirizzo che mi aveva mandato via sms.
Ho infilato la Scenic nel dormitorio di tutte le auto pendolariali, raccolto tra le palazzine di dieci piani, le aiuole sempreverdi e le piste ciclabili. Poi insieme a C. ho percorso a piedi non più di un centinaio di metri, fino all’ingresso del consultorio famigliare addossato alla chiesa. Appena dietro di noi giungeva un uomo che poteva avere una sessantina d’anni. L’accompagnava una giovane donna dall’aria dimessa. Seminascosto in mezzo ai due un ragazzo con gli occhiali, che, a ogni passo, sembrava affondare con una gamba in buco invisibile, messo proprio sul suo percorso.
Si sono fermati, come noi, davanti al portoncino chiuso. Li ho salutati, a voce alta, mostrandomi gioviale, cercando con la giovialità di annacquare il timore e la vergogna del timore di specchiarmi nell’incedere claudicante cui avevo assistito. Il segnale elettrico ci ha aperto il passaggio e siamo scivolati tra stanzette messe a nuovo e ordinate fino al piano superiore, raggiungibile grazie a una scala stretta, come scavata dentro al muro, un muro così spesso e solido da far pensare a una fortezza medievale.
Alla vista delle fatidiche sedie in cerchio, ho vacillato. Un paio di queste era già preso da una coppia di mezza età, ma il resto rimaneva ancora libero, come se persino loro, i partecipanti di rito del mutuo aiuto, stessero lottando per vincere le loro resistenze a spingersi fin lì: uscire dal tepore domestico dopo le nove di sera, a inizio febbraio, con il cappotto di carta velina della propria fragilità, e il berretto, anziché calcato sulla testa, in mano, proteso nell’atto di chi dichiara bisogno. Di che cosa non si potrebbe nemmeno specificare. Bisogno e basta. Anche lì, nell’aria della sala battuta da una luce gialla, accesa dal tungsteno, ho continuato a proporre la mia immagine ostinatamente calorosa, e mi sono lanciata a stringere le mani cercando di ricordarmi com’è che facesse il mio sorriso più sincero. Le due donne che dovevano essere le moderatrici di cui C. mi aveva parlato avevano per me un’accoglienza cordiale, e io cominciavo a non sentirmi all’altezza. Ho preso posto vicino alla famiglia con cui avevamo fatto il nostro ingresso. A una a una, intanto, le sedie venivano occupate. C’erano saluti, abbracci, scambi di battute che mi facevano ricordare il circolo Soms dove andavo a giocare a calcio balilla da piccola. Sentore di sigarette appena spente, mani fredde e pelle asciugata. Maglioni pesanti e scarpe sportive. A occhio potevo essere la più giovane.
Una delle moderatrici ha dato avvio alla riunione. Qualcuno le ha fatto i complimenti per la borsa, variopinta e giovanile e lei ha ammesso di averla sottratta alla figlia. Una figlia che, immaginavo, doveva essere una ragazzina normale alle prese con i problemi di ogni teen-ager normale. La donna era giovanile di per sé: un tono di voce squillante, sicuro, come lo sguardo. Non avrebbe sfigurato come conduttrice televisiva. Si è rivolta a me chiedendo se volessi presentarmi. Certo che volevo: avevo ormai deciso che mi sarei prestata a tutto. E mentre accennavo alla patologia di Dorothea, alle vicende scolastiche, mi rendevo conto che era la prima volta che parlavo di mia figlia davanti a così tanta gente, ma che non mi sentivo in difficoltà, nel farlo. Quelli non erano semplici genitori. Non avevano gli occhi piegati all’ingiù, nell’ascoltarmi, ma facevano sì con la testa, quel sì che vuole dire: so di che cosa stai parlando. Ecco che la mia storia personale andava a confluire in un bacino più vasto. Guardavo dritto davanti a me, ma potevo scorgere i volti di tutti: le rughe solcate dall’insonnia, le labbra piegate dall’amaro della fatica. Quella fatica che s’è appollaiata sulle loro spalle nel giorno in cui sono diventati genitori, o, chi lo sa, forse già da prima. Una fatica cui non si fa mai l’abitudine e che anche se sfinisce, non annienta. Temevo di annoiarli e così ho tagliato corto dicendo che da poco scrivo un blog sul tema della diversità. Mi hanno chiesto come si chiamasse, il blog, e a quel punto mi sono resa conto che il titolo che avevo scelto era troppo lungo e difficile da memorizzare.
L’argomento del giorno era offerto proprio dalla visita del pensionato e del ragazzo. Erano lì a presentare l’attività di un’associazione sportiva per disabili. Il ragazzo era affetto da spina bifida. Il padre faceva presente le difficoltà di mantenere attiva l’associazione perché non si trovano abbastanza aderenti: “Io incontro i genitori, parlo con loro. Spiego tutto quello che facciamo, loro mi sembrano convinti, ma alla fine poi nessuno li porta, i ragazzi. Non capisco, perché non vogliano venire. Organizziamo così tante cose, andiamo anche ai campionati.” La ragazza dimessa benediceva le parole sorridendo con lo sguardo rivolto a terra.
L’uomo aveva anche portato dei calendari, di grosso formato con le foto degli atleti. Ragazzi in divisa da pallacanestro e pallavolo.
Uno dei calendari viene fatto girare e viene sfogliato a turno, da ciascuno di noi. Per quanto cerchi di vedere l’aspetto nobile dell’iniziativa, dello sport praticato dai disabili non riesco a non focalizzare la mia attenzione sul fatto che i ragazzi delle foto siano quasi tutti down: io che cerco di mettere in fuga il fantasma della paura della disabilità, che pongo degli interrogativi sul concetto di integrazione, non riuscirei ad appenderlo in casa.
Gli altri invece reagiscono con una naturalezza, e corrispondono all’intervento:
“A Marco il ciclismo ha fatto molto bene. Chiaro che i primi tempi non stavo mica tanto tranquilla, vista la sua aggressività, ché salta su con niente. Ma gli permette di scaricarsi. Ed è così felice. Fa tanti di quei chilometri, chi l’avrebbe mai detto.” A parlare è una donna che potrebbe avere la mia età, per cui ho provato una forte simpatia nel momento in cui mi ha fatto capire, da un accenno, che anche lei ha dovuto ricorrere alle vie legali per la questione del sostegno.
“Fede non salterebbe mai nemmeno un allenamento”. Le fa eco quello che sta vicino a me. È stato l’ultimo ad arrivare. Piccolo, scattoso, jeans attillati, giubbino di pelle nera. Potrebbe avere quindici anni come quaranta, ma il pizzetto brizzolato è traditore. Ha attraversato il cerchio, sorridente, schernendosi dalle prese in giro di qualcuno, lanciando vattelapesca bonari a destra e a manca, mi è venuto incontro per salutare “quella nuova” e poi è andato a prendersi una sedia dalla pila in fondo alla sala, l’ha aperta e si è sistemato di fianco a un ragazzo alto, che sembra avere molto sonno. Durante la presentazione del pensionato ha fatto qualche intervento, stuzzicando il ragazzone che è grande il doppio di lui. Quell’altro incassava, ma poi ribatteva dimostrando di saper reggere la provocazione e dandomi l’impressione che quel battibecco viene inscenato usualmente, ed è quanto che il resto del gruppo si aspetta. Adesso, semicoricato sulla sedia gambe distese, braccia conserte il tipo scattoso tiene la scena, da solo: “Dovreste vederlo, Federico. I suoi compagni che s’accapigliano, uno sopra l’altro per prendere per la palla e lui a bordo campo. Pulito. Ragazzi, è spet-ta-co-la-re!”. E attraverso le lenti gli occhi già grandi si allargano ancora di più: è quel misto di appagamento ammirato, quasi commosso, di chi culla in bocca il sapore di un vino riserva speciale.
Federico mi sta davanti: dà piccoli calci ai ciuffi d’erba con la punta del piede.
Ormai è quasi mezzanotte. La comitiva si accomiata, si scioglie. Uno dei calendari è rimasto abbandonato sulla sedia. Lo raccolgo io, per fare i conti con me stessa. Per allenarmi con gli ostacoli che non riesco ancora a superare.
Scendo per quei gradini che prima m’erano apparsi così stretti, in compagnia del padre di Federico, vorrei sapere di più sul ragazzo: “Fino ai due anni è stato “normale”. Poi, da un giorno all’altro, s’è spento. Buio totale. Mia moglie ha lasciato il lavoro per dedicarsi a lui. Per fortuna che i fratelli erano già abbastanza grandi.” Mi lascia intuire di tutto quello che hanno fatto per cercare di riportare il figlio alla luce. Mi accenna della logopedia, quel tanto che basta per darmi a intendere anni di terapia. Dell’osteopatia. L’osteopatia fa miracoli, dice. Per questo adesso organizza al suo paese sedute gratuite per bambini e ragazzi disabili, tenute da un luminare nel settore. “Può venire anche tua figlia, se vuoi. Non è vicinissimo a casa vostra, ma da quello che ho capito sarebbe una cosa ottima per lei. Ed è gratuito.”
Prendo nota del suo numero, ed ecco, è già scappato. Deve andare a lavorare.
C. mi spiega che ha un impiego notturno, così che di giorno riesce a dedicare il tempo al figlio e all’attività dell’associazione che ha fondato a sostegno dei ragazzi autistici.
Lamarck aveva ragione: un essere vivente è in grado di modificare internamente la propria struttura di fronte al variare delle condizioni in cui si trova a vivere.
Ciao,
Il gruppo genitori e’, se percepito nel giusto modo, un potente mezzo di condivisione dove i genitori di bambini speciali possono confrontarsi e imparare gli uni dalle esperienze degli altri.
Purtroppo pero’ spesso viene frainteso lo scopo dell’iniziativa: molti genitori aderiscono solo per cortesia poi però si tirano indietro, altri pensano che necessariamente debbano incontrarsi genitori con figli che hanno le stesse disabilità per potersi confrontare esclusivamente sui problemi pratici che quotidianamente si trovano ad affrontare e si indispettiscono se così non è .
Io ho partecipato a diversi gruppi genitori, alcuni fondamentali per la mia crescita come genitore di un bambino disabile, come quello di Via dei Sabelli a Roma, altri inutili se intesi come gruppo, perché eravamo in due la prima volta e le altre ero praticamente da sola, con la psicologa due ore a mia disposizione.
Penso che sia difficile affrontare per la prima volta questa esperienza, ma spesso ci lamentiamo che siamo lasciati soli ad affrontare tutto questo, ma poi non proviamo a utilizzare i mezzi che ci vengono messi a disposizione e soprattutto ci chiudiamo in noi stessi senza pensare che il confronto con gli altri che si trovano in situazioni simili alle nostre non amplifica il nostro dolore, ma ci permette di condividerlo senza compatimenti di sorta. Inoltre ascoltare le esperienze degli altri è fondamentale anche per il nostro di percorso: sentire dalla mamma di un bambino autistico come il mio che suo figlio di 2 anni più grande le aveva raccontato un sogno mi ha riempito il cuore di gioia e di speranza in un momento in cui mi sembrava impossibile che potesse accadere.
Queste sono piccole iniezioni di fiducia che ci permettono di affrontare con più grinta e determinazione le difficoltà di ogni giorno e niente come la speranza nel futuro e la fiducia nelle potenzialità dei nostri piccoli grandi campioni ci può dare più grinta ed energia.
Scusa se mi sono dilungata troppo, ma è un argomento che mi sta particolarmente a cuore.
Vi abbraccio forte.
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grazie per avere scritto queste parole, Roberta. è un’iniezione di fiducia anche per me!
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