C’è qualcosa che al mattino stacca il mio corpo dal letto, posandolo sulla superficie compatta della nuova giornata. E a quel punto non ho che da incurvare la schiena e scavare. Con le unghie gratto la polvere, raccolgo sassolini, invano le dita cercano il soffice di un humus odoroso, più spesso devono estrarre blocchi di calcare. E poi ci sono le radici, che non vengono via, e per quanto tiri ne riesco solo a strappare dei pezzetti. Vado avanti così, finché non creo una nicchia, dove mettere al sicuro un altro pezzo di esistenza.
C’è qualcosa che mi fa continuare questo lavorio tenace, a ogni levare del sole, anche quando il sole non si vede, anche quando non s’è ancora levato. Non penso si tratti di amore, l’amore materno che, si dice, sia più forte di ogni cosa. No, è qualcosa che va al di là di me, dei miei sentimenti e delle mie emozioni. Qualcosa che mi guida in una serie di innumerevoli passaggi che compio con maggiore o minor forza e presenza di spirito vincendo l’attrito del mio umore, della condizione del fisico, della salute. Ogni volta, dopo aver aperto il divano-letto dove riposo da quando sono tornata single, dopo aver scaldato con il phon il bustino ortopedico, e aver richiamato Dorothea più volte perché venga da me e possa metterglielo, questo bustino, dopo averla portata a lavare i denti, aiutata nell’indossare il pigiama, sistemata sotto le coperte, dopo essermi coricata vicino a lei per cantarle “Il paradiso dei calzini” o raccontarle la favola di Barbapapà e il Gigante di Ferro, ho la sensazione di aver riposto nella scatola tutti i pezzi dello stesso puzzle che domani sarà nuovamente da ricomporre.
Una cosa è certa: dal momento in cui Dorothea all’indomani si sveglierà dovrò da capo vincere l’inerzia che lei oppone, quasi su tutto. Un’inerzia che in parte l’accomuna a tutti gli altri bambini che insistono per poter rimanere ancora a poltrire sotto le coperte e che in parte ha delle caratteristiche tutte sue, per cui le azioni più semplici, come andare in bagno a fare pipì, va scandita in una sequenza di gesti che bisogna nominare a uno a uno, e più volte, perché è difficile ottenere di essere ascoltati alla prima esortazione: sali sullo sgabello, abbassa le mutandine, siediti, no, resta seduta. Lei poi alla fine si siede e cerca di sedurmi recitando le sue frasi sciogli-lingua che s’inventa da sé, tipo: “Ciòppete, suvà suvà” e se la richiamo per invitarla all’azione successiva (forza, adesso togliti i pantaloni così ci laviamo) lei insiste, più forte, guardandomi dritta negli occhi, che la voglia di scherzare glieli fa diventare tondi come biglie: “Suvà, Suvà!”. “Suvà, suvà” le rispondo, e allora lei ride, ce l’ha fatta anche stavolta a tirarmi dentro. Vince (quasi) sempre lei.
Sono una madre e questo mio ruolo, come per tutte le madri, include molteplici risvolti: affetto, cura, educazione. Riverso spontaneamente energia e gioia sull’affetto, gestisco con grande fatica la cura, provo un senso di disagio e inadeguatezza sull’educazione. Tuttavia l’impegno non mi manca mai. Nel caso di Dorothea l’aspetto educativo nell’ambiente domestico implica anche di attenersi, per quanto possibile, alle linee portanti del programma impostato dalle specialiste del don Gnocchi, programma al quale si rifanno anche le maestre in ambito scolastico. Sono grata, a queste specialiste, quando mi dicono che alla base dei progressi di Dorothea c’è tutto il lavoro di concerto tra le varie parti coinvolte. Mi sento un po’ sollevata: anche se non riesco sempre a fare tutto quello che dovrei, nell’insieme, il mio contributo è di qualche utilità. Un contributo minimo, spesso manchevole di perseveranza quando non arrancante e confuso: dovrei aggiornare il libro-diario su cui vanno annotate le cose rilevanti che le accadono, quello che gli specialisti chiamano “Libro dei Resti”: una specie di scrap-book che la aiuta a ricordare e a raccontare le proprie esperienze, dovrei stampare i simboli PCS da mettere nella sua tabella di comunicazione. E, chiaramente, usare la tabella di comunicazione quando comunico con lei. Ogni mattina dovrei fare riferimento al calendario per ricordarle che cosa avverrà in quella giornata. Aiutarla a rendersi autonoma, e anziché vestirla io, che si fa prima, assisterla in ogni passaggio, ripetendo più volte di prestare attenzione a quello che sta facendo, di non guardare per aria mentre indossa le calzine o i pantaloni della tuta.
Un modo per aiutare Dorothea a mettersi sulla via della “indipendenza” è nel renderla partecipe di piccole mansioni, tipo preparare la tavola. Su consiglio delle terapiste ho fatto due tovagliette plastificate con le sagome di piatto, bicchiere, forchetta e cucchiaio, così che per lei sia chiaro dove vada posato che cosa.
Col tempo questo è finito per diventare un cerimoniale giocoso, ma all’inizio era come infliggerle un castigo, a lei incomprensibile: non riusciva a focalizzare il rapporto tra quell’andare dalla cucina alla sala da pranzo e sistemare al suo solito posto a tavola il bicchiere e le posate che avrebbe usato tra pochi minuti. Quasi sempre adesso apparecchia lei, ma le forchette, chissà perché, le mette con i rebbi verso il bordo del tavolo. Ho provato a farle notare che il disegno indicava diversamente, ma poi ho lasciato stare interpretando questa sua preferenza per l’incontrario come quella piccola eccentricità che salva dall’asfissia dentro la regola.
È uno sforzo continuo mettere insieme tutto questo con le necessità casalinghe di cucinare, lavare, tenere in ordine, fare la spesa, oltre all’impiego (perché si tratta di un vero e proprio impiego) di coordinamento con la scuola, i medici e i terapisti. Un po’ perché l’organizzazione e l’ordine non sono mai stati il mio forte, un po’ perché me la devo sbrigare da sola, quasi su tutto. È vero, in questo momento non ho l’impegno del posto fisso, anche se devo trovare il modo di fare qualche lavoretto di traduzione o interpretariato, ogni tanto, giusto per non rimanere al verde.
E poi… ho bisogno di un po’ di tempo per scrivere.
Di solito mi riserbo un paio d’ore, dopo aver accompagnato Dorothea a scuola. Preferisco il mattino perché è il momento in cui le immagini e le parole mi vengono a trovare da sole. E se vedo che faccio troppo sforzo lascio stare: vuol dire che per quel giorno non c’è niente da cavare fuori. Scrivere per me è un po’ come una cura igienica, un far prendere aria ai pensieri e ai sentimenti che se rimangono tutti pigiati dentro finiscono per stropicciarsi, si confondono, si schiacciano uno addosso all’altro e così le pieghe rimangono permanenti. Forse è per questo che mi piace farlo quando si sciacqua via il torpore del sonno per guardare in faccia la giornata. Io sono sempre stata una diurna, se cala la luce mi ottenebro.
Ultimamente ci metto pochi secondi per addormentarmi ed è buono che sia così. Rimuginare nel letto, al buio, è come entrare dentro al buio: starò facendo abbastanza per aiutarla? Come posso fare per proteggerla? Come mi posso organizzare per trovare lavoro e guadagnare i soldi per assicurarle quello di cui ha bisogno? Di tanto in tanto vorrei qualcuno vicino, qualcuno che mi abbracciasse, che mi dicesse: “Lasciati andare, ci sono io”, ma non mi viene in mente nessuno di particolare. Così finisce che provo nostalgia per mio marito.
A volte il peso di quello che mi sento sulle spalle mi sembra impossibile da sostenere, ma ho imparato che si tratta di momenti, che domani o dopodomani ritroverò delle riserve di energia insospettate da chissà dove. Non devo far altro che tirare avanti. Allora mi giro su un fianco, dal lato di Dorothea. Lei, nel sonno, sente il mio arrivo e allora allunga un braccio o una gamba. Le piace sentire il contatto fisico. Le prendo la mano: “Lasciati andare, ci sono io.”
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La foto in alto è di Kobugi, “Not Alone”
Oh come ti capisco! Quante notti passate in bianco a pensare ad un futuro che,nel buio e nella stanchezza di una giornata passata tra mille piccole grandi difficoltà, sembra ancora più incerto e spaventoso. Poi però con l’arrivo della luce del giorno arriva pure un po’ di ottimismo e di speranza (forse anche istinto di sopravvivenza) che ti permette di affrontare il nuovo giorno che sta iniziando.
Io, quando ci riesco, cerco di vivere un po’ alla giornata, affrontando i problemi man mano che si presentano, ma non nego che non è sempre facile e certe sere mi piacerebbe poter spegnere il cervello per un po’ e ritrovare quella spensieratezza e quel sonno profondo e riposante di quando ero ragazzina.
Vi auguro una serena nottata e vi abbraccio forte, sperando che un poco i condivisione possa alleviare almeno un pochino quel senso di solitudine che ogni tanto ci assale.
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la condivisione… è il più potente dei cordiali! 🙂 grazie, Roberta. Ricambio con tutto il cuore questo abbraccio. Wabi
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Ciao Roberta, non vorrei sembrati indiscreta, ma hai un’email cui potrei scriverti? ciao e buona giornata.
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Si, la mia mail è robertamaggi1@gmail.com.
Scrivimi pure quando vuoi.
Ciao e a presto.
P
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