Cosa serve per crescere

CHILI

Il tempo, inteso come scadenze a cubetti, tempistiche assortite, inscatolate, da pappare una dietro l’altra, è soltanto un’illusione, uno specchietto per le allodole. Tanto vale dimenticarsene, o quasi.

Però fino a poco fa ci credevo, a questa cosa della scatola con i cioccolatini temporali. E con l’arrivo di Dorothea ho allungato le mani su quella che ritenevo fosse la sua, di scatola. L’ho aperta: dentro non c’era niente.

Poco male, la mia sarebbe andata bene per tutte e due.

Così ho cominciato a darmi da fare. Ero convinta che la possibilità che mia figlia aveva di recuperare il divario rispetto agli altri bambini fosse dipendente dal mio contributo organizzativo. Quanto più avrei agito in modo rapido, efficiente e su larga scala, tanto prima e più facilmente lei avrebbe compiuto quei passaggi di crescita che rientravano nella cosiddetta “fisiologia”. Da questo punto di vista, durante i suoi primi mesi di vita avevo trovato due alleate nelle specialiste di fisioterapia craniosacrale. A ogni seduta mi piaceva provare il conforto di chi sente che sta facendo una cosa giusta. C’erano quelle mani che si appoggiavano sul suo corpicino dolcemente ripiegato in avanti, secondo la curvatura della spina dorsale che andava leggermente verso destra. Quelle mani aperte, con le dita protese in una pressione sicura, potevano in qualche modo “sistemarla”: io credevo nell’intervento esterno che sana, che aggiusta, così come il meccanico o il ciclista mettono a punto il veicolo che non funziona come dovrebbe. Però, in modo paradossale, non nutrivo la stessa fiducia nei piccoli esercizi con cui avrei dovuto mantenere e consolidare i benefici della terapia a casa, e cioè eseguivo le indicazioni che mi erano state date, ma con un senso di frustrazione e scetticismo e di stanchezza: mettevo mia figlia a pancia in giù, e nello stesso momento, osservandomi dall’esterno mi sembrava che quel mio intervenire fosse patetico, e che poco sarebbe valso continuare. Dorothea stava in bilico sulla pancia e annaspava come un bacarozzo rovesciato sul dorso. Non era che mi stavo accanendo? E tutto quello che ne ricavavo era stanchezza e frustrazione.

Dorothea era per me la protagonista di ogni nuovo spettacolo nel mio personale teatrino delle ombre, ma la sua concreta partecipazione, più come attrice, risultava essere quella di spettatrice. Allungava le manine su ceci, lenticchie e fagioli che le versavo nelle vaschette di gelato formato famiglia, le batteva piatte, facendo sobbalzare i corpuscoli vegetali. Non c’era pericolo che se li mettesse in bocca, non aveva lo stimolo a portare alla bocca niente di niente. La bocca invece la teneva aperta mostrando i piccoli denti appena spuntati e mi guardava: “Perché stai facendo tutta questa fatica? Io rimango uguale a me stessa”.

Quando aveva ormai un anno e mezzo, un giorno, in un parco giochi di montagna, lei, attratta dalla palla, allungò una gambina per dare un calcio. Sentii che la presa delle sue mani sulle mie mani si era alleggerita ed ebbi la certezza che fosse sul punto di andare avanti da sola, mi convinsi di aver trovato il luogo ideale per fare le nostre prove: sull’erba, al sole, vicino a un ameno laghetto artificiale avremmo guadagnato il “nostro” traguardo. Tornai a casa impaziente di ritornare laggiù, l’indomani. E vi ritornammo, ma non ci fu niente da fare, né quel giorno, né gli altri a seguire. Finché un mese più tardi Dorothea fece un passo da sola, senza appoggiarsi a niente e a nessuno. Eravamo in soggiorno, pieno delle note di “Give it Away”, sparate dallo stereo: i Red Hot Chili Peppers del periodo d’oro, che mi era sempre piaciuto definire “tellurici”, avevano sostenuto Dorothea nell’affidare il suo passo alla terra.

Io ero quella che incalzava i medici per avere gli appuntamenti quanto prima, e quando ottenni che la piccola fosse seguita al Don Gnocchi per le terapie, alla neuropsichiatra di riferimento che aveva messo a punto un programma terapeutico mostrai le mie perplessità sul fatto che le ore settimanali di psicomotricità erano solo due.

C’erano poi le visite di controllo, dalle quali mi aspettavo sempre un barlume di speranza.

E a ogni visita, da ogni specialista in qualsivoglia campo, dalla neuropsichiatria, all’ortopedia, fisiatria, neuroftalmologia, otorinolaigoiatria, ne uscivano descrizioni impersonali di due pagine, relazioni compunte e comprensibili quel tanto che bastava perché non ne potessi ricavare nemmeno un po’ di conforto.

Alla fine ho smesso di leggerle, quelle relazioni, o, almeno, le scorrevo (e le scorro) rapidamente, incontrando molti termini ormai noti, altri che invece dovevo andare a vedere su Wikipedia, senza capirci poi molto di più, ma senza farmene un cruccio perché quella era solo una parte della storia. Se avevo bisogno di stimoli e di entusiasmo nel continuare a seguire mia figlia, o di sostegno e conforto non era lì che dovevo cercare.

Riponevo il foglio nella cartellina. Che cosa c’è scritto, mi chiedeva mio marito.

Niente, le solite cose.

Qualche giorno fa mi sono imbattuta in un libriccino: “Vorrei un tempo lento lento”, di Luigina del Gobbo e Sophie Fatus: una filastrocca poetica illustrata in modo leggero, colorato ed elegante: disegni stilizzati e macchie di colore su fondo bianco. L’ho considerato come una dedica da parte di Dorothea. E l’ho portato a casa non tanto per farne un regalo per lei, quanto come riconoscimento di quello che lei ha regalato a me.

“Vorrei un tempo Vuoto,

lo vorrei assente

per stare ad occhi chiusi

e poter non fare niente”

Laddove c’è il vuoto, laddove non si fa niente, c’è lo spazio perché accada qualcosa. Qualcosa di non premeditato, di spontaneo. E sia quello che deve essere.

I tempi sono relativi, possono essere così lunghi da sembrare interminabili e poi all’improvviso si dissolvono in un cambio di rotta e si perdono, nell’indefinito di un nuovo orizzonte, oppure possono essere brevissimi, ma così intensi da sembrare infiniti, come quello in cui Dorothea lascia emergere una frase “sensata”, pertinente al contesto. Appena due parole, magari anche solo un gesto, a una mia richiesta. Ad esempio: “Dammi un bacio”. Ed ecco che lei si avvicina e lascia una traccia umida sulla mia guancia.

4 Comments

  1. Ciao, mi chiamo Roberta e sono la mamma di un bambino affetto da un disturbo generalizzato dello sviluppo.
    Capisco molto bene la sensazione che descrivi, quell’ansia continua che si prova, soprattutto all’inizio, come se in ogni singolo istante della vita dei nostri figli fossimo obbligati a fare qualcosa di propedeutico, di curativo. Non siamo più semplici genitori, ma anche terapeuti, neuropsichiatri, logopedisti e questo crea senso di inadeguatezza e frustrazione.
    Poi però, con il tempo, capiamo che la cosa migliore che possiamo fare è essere semplicemente mamme e papà, amarli come mai nessuno potrà fare, ed il tempo scorrerà con il ritmo ed il senso che noi vorremo dargli. Mi piace molto il modo in cui scrivi e mi ritrovo molto in quello che dici.
    Auguro a te e alla tua piccola tanta serenità per affrontare al meglio tutte le tappe che sono sicura raggiungerete e supererete, senza scadenze, che non servono proprio a niente.
    Baci.

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    1. grazie mille delle parole, Roberta! e grazie dell’augurio. Sei stata molto carina a scrivermi. Fa bene avere un riscontro, so di non essere da sola, purtroppo, a vivere quello che vivo quotidianamente, la vicinanza delle persone che condividono il mio stato, insieme a quella delle persone più care, è un’iniezione di energia! Anche io ti faccio tanti auguri e vi abbraccio forte. a presto! wabi

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