L’utilità dell’inutile

utilitàinutile“Se arrivava cinque minuti prima era seduta lì.”

Dice. E mi indica col mento la stanzetta, dove una donna si sta per accomodare davanti alla scrivania del funzionario con cui ho l’appuntamento per le undici e venti.

“Sa adesso quanto le tocca aspettare?” insiste. Sorrido, deve essere uno di quei pensionati che hanno l’ossessione di non perdere tempo. Forse perché dopo una vita passata a correre, trovarsene così tanto a disposizione li fa sentire in preda al niente. Intanto si capisce che lui adesso non ha molto da fare, indugia lì, sulla porta, aspetta l’ora di pranzo. Per quanto mi riguarda sono solo contenta che non mi abbia chiesto perché sia venuta al patronato. Si direbbe quasi che l’abbia capito: no, non sono una che va a far il 730, ho altre faccende da sbrigare.

Gli do retta: “E pensare che sono arrivata in anticipo.” In fondo in fondo è vero, sono le undici e quindici.

“Eh ma quello prima di lei ha finito molto presto. Alle undici era già fuori”. Non gli sfugge proprio niente. E poi, sottovoce, mettendosi una mano a lato della bocca a mo’ di paravento: “Quella lì che è entrata adesso non aveva neanche l’appuntamento…”. Adesso sì che è soddisfatto, il nonno: deve aver scovato nella mia faccia quel cenno di disappunto che cercava. Può sparire dietro la porta del suo ufficetto e lasciarmi da sola col rimorso di essermi fermata al bar per un caffè.

Non ho che da mettermi buona. Scelgo una tra le seggiole di plastica rossa nel corridoio. Per fortuna ho sempre qualcosa da leggere con me.

Vedi, nonno, mica mi faccio prendere in contropiede.

È un libro illustrato, scovato al Libraccio al cinquanta per cento di sconto: una versione del Petrushka di Stravinsky, scritta da Vivian Lamarque. Lasciarlo sullo scaffale, nascosto tra le Pimpe e i Mini Pony sarebbe equivalso a un abbandono.

Tiro fuori il libro dal sacchetto del negozio, è sottile, quadrato, rilegato in brossura, la carta è patinata.

Le illustrazioni sono a tecnica mista: acquarelli inseriti in un collage di carte, stampe e tessuti. Sono preziose, bizantine. L’avevo pensato come un libro che avrei potuto leggere a Dorothea, ma mi chiedo se tutta questa sovrabbondanza di dettagli non rischi di metterla in confusione.

La prosa invece è semplice, e nella sua semplicità è evocativa, il tocco poetico è inconfondibile:

“Il Teatro delle marionette

guardava incantato

la Piazza,

la Piazza guardava

il Teatro.

Era l’ultimo giorno

di Carnevale”

La pagina in cui finalmente compare Petrushka si distingue dal resto: un disegno semplice, colorato a pastello. La figura dell’omino seduto a cavallo di un filo, sospeso sopra i tetti, sul fondale del cielo:

“Alzate lo sguardo. Lo vedete? È lassù in alto, siede su un filo, amico degli uccelli, di nuvole e conigli volanti. Conigli volanti? Sì, conigli volanti.”

Ed ecco che appare la Ballerina e anche il Moro: elegante e sensuale e irruento. Il Moro che va dritto verso il suo obiettivo, che non vuole fastidi mentre cerca di far sua la Ballerina e, infine colpisce Petrushka con la sciabola e l’uccide.

Povero Petrushka, che brutta fine per uno che ricercava amore e poesia.

Nella stanza del funzionario le cose vanno per le lunghe, la donna seduta al posto dove dovrei essere io continua a posare documenti sulla scrivania. L’uomo li prende poi digita al computer, guardando da sotto in su, attraverso gli occhiali.

E sì che mia madre me l’ha sempre detto: meglio arrivare con abbondante anticipo. Cinque minuti, non sono abbastanza.

Mi alzo, poso la borsa sulla sedia. Di fatto non avevo nemmeno voglia del caffè. E non era nemmeno buono, e in più ha attivato l’aggressività dei miei succhi gastrici.

Il nonno riappare, con la scusa di fare una fotocopia.

“Guardi un po’, per cinque minuti…” borbotta, scrollando il capo.

La soddisfazione non gliela voglio dare, e faccio sfoggio di una saggezza di seconda mano, posticcia, fuori luogo:

“Che cosa sono cinque minuti in confronto all’eternità?”

Il nonno mi guarda, la bocca gli si tira da un capo all’altro, sta sorridendo o si tratta solo di una smorfia di compatimento? Senza aggiungere altro si ritira nell’ufficetto e mi ritrovo faccia a faccia con le sedie di plastica rossa e lucida. No che non sono convinta di quello che ho detto, se fossi arrivata alle undici e dieci a quest’ora avrei già finito, forse sarei anche già a casa. Quanto ci si mette per avviare una pratica di riconoscimento d’invalidità civile? Mi alzo: sono sul crinale tra l’accettazione zen e un definitivo e “sacrosanto” sbotto d’impazienza. Da che parte mi lascio andare? Lancio un’occhiata verso l’ufficio. Sì che mi avrà visto, il funzionario. E se continuo a stare così in piedi guardando verso di lui, comincerà a sentirsi a disagio e quindi si darà un mossa, no?

Però, tutto sommato.

Il fatto di essere qui in attesa non implica che il tempo mi sia stato tolto. Il tempo è sempre stato mio. Probabilmente se al mio arrivo fosse stato subito il mio turno non avrei letto il libro di Petrushka, e una volta arrivata a casa l’avrei infilato direttamente su uno scaffale, e perché diventasse parte della famiglia di quei tesori e cimeli che non degno mai di uno sguardo. Non mi sarei conto che avrei potuto farne un regalo perfetto per una mia cara amica che rivedrò tra pochi giorni.

E adesso che l’ho finito e mi trovo qui in piedi, potrei starmene a fissare le sedie di plastica rossa. Chissà che cosa ne verrebbe fuori. Ma da dove arriva questa tendenza di considerare il tempo come a servizio delle nostre aspettative, delle nostre finalità, quelle che pensiamo siano le nostre uniche, perché pensiamo di esserne coscienti? E se io invece avessi avuto bisogno di stare qui a fissare queste sedie rosse, che sono per me quello che per Petrusha sono i conigli volanti? Il taglio con cui il Moro ferisce a morte il poeta, non è forse quello dell’utile che impone la propria volontà alla leggerezza del respiro, a quello che emerge senza essere stato programmato?

Proprio stamattina, prima di uscire di casa mi ero annotata questa frase dal Chuang Tzu: “Tutti conoscono l’utilità dell’utile, ma nessuno conosce l’utilità dell’inutile!”. Dunque quale migliore applicazione se non questa. E dunque continuiamo a fissare le sedie rosse.

La donna esce dall’ufficio, il funzionario mi invita a entrare, facendo il cognome di mia figlia.

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