Bonatti, il bivacco e la cima

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“Andiamo a vedere Bonatti” ha detto il mio amico. L’ha messa giù come una cosa ovvia. Si sa, no?, che se c’è la mostra delle foto di Walter Bonatti esploratore, ci si organizza per andarla a vedere, il tempo per farlo lo si trova.

È un fatto di cura di sé e del mondo, di salubrità morale.

A tutt’e due andava bene il venerdì mattina, e il venerdì mattina eravamo lì, al Palazzo della Ragione, insieme alla di lui figlia tredicenne, esonerata per un giorno dalla scuola.

Bonatti, dunque. Quel nome che ti riempie la bocca e l’immaginazione.

All’ingresso della mostra c’è una doverosa anticamera, perché non si può parlare di Bonatti reporter senza almeno annoverare le sue più importanti imprese di montagna: c’è un breve video che monta in sequenza le riprese e gli scatti del Monte Bianco, del K2 e si conclude con lo sguardo della telecamera sull’elicottero che sfiora lui, solitario, in piedi sulla vetta del Cervino diventata all’improvviso morbida e mansueta, niente più che una collinetta. La voce dello stesso Bonatti in sottofondo che ricorda: “Mi hanno solo chiesto: “Walter, tout va bien?””

A lato dello schermo tre semplici teche, con dentro poche cose e cioè tutto: gli scarponi da montagna, con una copertura (di tessuto) messa da lui stesso, per creare una protezione termica, delle muffole (di lana). I cunei (di legno) che infrattava tra le rocce, per assicurare la corda. I ramponi. La macchina fotografica. La macchina da scrivere.

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Insomma, è chiaro: a sostenere il mitico Walter nelle sue imprese non c’era nessuna attrezzatura tecnica o tecnologica. Solo la sua forza, la sua tenacia, la determinazione nella ricerca.

Una ricerca attraverso le dimensioni dello spazio, ma che aveva origine da una curiosità e un’aspirazione interiori.

Questo appare evidente una volta che ci si trova nella sala grande, dove nella penombra attraversata dai fasci delle luci puntate sulle stampe ti trovi a tu per tu con delle foto uniche. Uniche non perché ritraggono splendidi angoli del mondo in cui molto probabilmente non andrai mai in vita tua: bocche di vulcani, ripe amazzoniche scoscese e impenetrabili. A renderle tali è la presenza dello stesso Bonatti all’interno della composizione, e non solo in quanto presenza fisica nell’autoscatto, ma perché lui ci trasmette la sua visione e la sua visione è prima di tutto quello che ha vissuto, che ha misurato con il proprio passo insieme agli occhi, che ha filtrato attraverso le proprie reminiscenze letterarie, e attraverso al propria immaginazione.
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Le didascalie che corredano ciascuna foto sono tratte dai suoi reportage. Una scrittura precisa, dove ogni verbo e ogni aggettivo, ogni virgola ha una funzione e una collocazione ben precisa. Leggendole si ha come l’impressione di ascendere con lui su una parete, di compiere dei passaggi sulla roccia: ogni elemento è stato scelto, ponderato. Il risultato, nella sua scabrità, e potente. Bonatti non crea programmaticamente suggestione. Lascia che questa si origini spontaneamente nel lettore.

Scrive: “Ho vagabondato per mesi per le foreste sudamericane sospinto dall’idea di scoprire nella realtà la natura descritta nel fantastico “Mondo perduto” di Conan Doyle. E l’ho trovata. Non ho incontrato dinosauri, ma ho costantemente avuto l’impressione che da un momento all’altro dovessero comparirmi dinanzi. Una “realtà”, dopotutto, non dipende anche dalla nostra capacità di immaginarla?”

Le Foto sono state scattate a partire dalla seconda metà degli anni ’60, ma potrebbero essere state fatte ieri. Ci restituiscono paesaggi dove la Natura è incontaminata, ora paradisiaca, ora desertica e minacciosa. E in questi quadri al di fuori della storia, lo stesso Bonatti che appare nel pieno del suo vigore fisico di trenta-quarantenne si pone su un piano di esemplarità astratta dal tempo e per questo universale. Lui voleva essere presente nelle foto, perché la sua era un’avventura umana, nello spirito di Doyle e Defoe, non solo un viaggio da cui trarre immagini da trasmettere al lettore di “Epoca”.

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Da allora sono passati cinquant’anni e Bonatti purtroppo ci ha lasciati nel 2011, ma a vedermelo così, aggrappato alla roccia, o nell’attraversata di un ghiacciaio e nel leggere le sue parole è come se fosse vivo e presente, e mi stesse vicino. E mi spiegasse che da lì, da quel suo percorso, c’è il segreto dell’energia e dell’entusiasmo per andare avanti e non arrendersi, mai, perché quello che ami, quello in cui credi è la cosa più giusta che fa per te. Che anche con due scarponi di pelle ricoperti di jersey puoi arrivare in cima. Che l’onestà intellettuale è un grande tesoro. Che la curiosità è la fiamma che ti tiene in vita. Che il mondo, nonostante tutte le difficoltà che incontri, è bello, basta andare alla scoperta, per vedere quello che c’è dietro a uno sperone, anche se ti costa passare la notte appeso, in un bivacco. Che la scoperta, quella vera, ha a che fare con se stessi.

“Mi si chiede se esistano ancora terre inesplorate (…) Per chi considerasse queste terre soltanto come ostacoli, come un dovere dell’uomo di superare e “civilizzare”, la risposta è già stata data. Per chi invece (come io spero) formulasse la domanda con un certo rimpianto, come per un tesoro perduto, rispondo che, a mio parere, il vero pericolo di esaurire la possibilità di “esplorare” dipende non tanto dalla mancanza di foreste o montagne sconosciute quanto dell’alterarsi del nostro spirito. Una nuova era esplorativa può dunque nascere oggi stesso, e forse qualcuno l’ha già inaugurata: è l’era dell’esplorazione introspettiva umana.

La nuova meta dell’esploratore non è più percorrere per primo un itinerario, bensì di affrontare un ambiente naturale già noto eliminando quei ritrovati tecnici che la sua coscienza e la conoscenza dell’elemento in cui si muove rendono non necessari. Ritroverà quell’istinto che già possedeva alle origini e che il progresso ha via via atrofizzato: una dote innata che, unita al sapere dell’uomo evoluto, crea un prezioso dialogo con la natura, costruttivo e ridimensionante. Nello stesso tempo, attraverso la sensibilità che filtra l’impresa del moderno esploratore, questa nostra vecchia Terra apparirà, come per incanto, inesauribilmente inesplorata.”

Walter Bonatti.

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