Una sera di qualche anno fa, ai tempi in cui Dorothea andava ancora all’asilo nido, mi è venuta in mente una canzoncina che avevo imparato quand’ero in prima elementare. Una di quelle con cui le bambine accompagnano il gioco del battere i palmi di una contro quelli dell’altra seguendo un ritmo che si fa sempre più veloce e la sfida è non sbagliare il “colpo”.
“Era lu-lu-lu,
era dì, dì, dì,
era lu,era dì,
era lu-ne-dì”
E via di seguito con tutti i giorni della settimana. Ho cominciato a sussurrarla a Dorothea che faticava ad addormentarsi, con la speranza che la ripetizione ipnotica le potesse concigliare il sonno, ma anche per sostenermi nella veglia a fine giornata, perché concentrandomi sulla scansione metronomenica della cantilena non mi sarei persa in un’attesa che sembrava infinita, quella di potermi staccare finalmente dalla sponda del lettino: avevo una rotaia su cui proseguire, un passo dopo l’altro, poco importava quanti lu-ne-dì avrei dovuto attraversare prima di poter andare in bagno a struccarmi.
A Dorothea la canzone piaceva e già il mattino successivo mi chiedeva di cantargliela, con quel suo modo di richiesta che è una specie di quiz, perché mi accenna a una, massimo due parole del testo, così come le intende lei. Poi col tempo ha dato preferenza ad altre canzoni, e meno male, perché questa dopo un po’ avevo cominciato a non reggerla più.
Sono passati quasi tre anni.
Tre anni di complilation di Crapapelata, Zecchino d’Oro, Battisti e Capossela, tanto per limitarci al repertorio italiano.
Nel frattempo le sue capacità linguistiche si sono notevolemente affinate così che mentre sto in cucina posso bearmi nel sentire la vocina acuta che intona: “Non dire noooo”.
Qualche settimana fa era nello spazio giochi che preferisce, il divano, tutta presa da un tete-tete con i suoi pupazzi ed ecco che viene fuori con:
“Era lu-lu-lu,
Era dì-dì-dì”.
Che l’avesse sentita a scuola da qualcun altro? So che in classe cantano tante canzoni e una delle maestre ha su per giù la mia età. Mi affaccio alla sala, con in mano una carota appena asciugata in un pezzo di Scottex:
“Che bella! L’avete cantata a scuola?”
“L’avete cantata a scuola?” mi fa eco lei.
“La canzoncina di quando eri piccola!”
“La bambina piccola”.
Fa un salto sulle ginocchia, mi volta la schiena e si butta a pesce su uno degli orsi di peluche, quello grande che di notte usa come cuscino e mi fa intendere che non se l’è proprio bevuto quel complimento indiretto sulla crescita. Mi ritiro, come il cucù dopo che ha annunciato le ore. Ritorno al ripiano di fianco al lavello e taglio rondelle di carota, vengono sempre tutte di spessore diseguale. Rifletto sul fatto che Dorothea ha una buona memoria, potrebbe essersela ricordata da sola, del resto sta famigliarizzando con i giorni della settimana. Di recente, su consiglio della sua terapista di comunicazione aumentativa alternativa, ho fatto per lei un pannello su cui ogni giorno sistemo in successione, lungo una striscia di velcro, dei talloncini con i simboli relativi agli eventi della giornata: terapia, scuola, ritorno a casa, piscina e via dicendo. Questo le serve come appoggio per una visualizzazione concettuale di quello che avverrà, così anche lei sa che cosa l’aspetta e possa “prepararsi”. La prima volta che questa cosa mi fu proposta non potei fare a meno di riandare a quando nella camera di una mia nipote che andava in prima media notai un calendario della settimana incollato a un anta dell’armadio: “Così so che cosa avviene ogni giorno” mi aveva spiegato lei. Tra le diciture scritte in bella calligrafia, dopo la scuola si altenavano piscina, danza e pallavolo. Davanti a quel pannello riassuntivo mi aveva colto l’ansia. Dunque una bambina ha già bisogno di un calendario? Impegni che si succeddono uno all’altro. Un vezzo, o l’inquietante proiezione/anticipazione di una necessità adulta? Vero è che gli impegni di Dorothea sono d’altro genere. A parte un giorno in cui ha mezz’ora di piscina dopo la scuola i pomeriggi sono liberi, gli impegni si concentrano al mattino, con le terapie. L’aspetto su cui lei va propriamente rassicurata, da quando mio marito e io ci siamo separati è che cosa prevede il fine giornata: con chi e dove mangerà e dormirà? Lo ammetto, sono sempre un po’ riluttante a metterla di fronte al pannello, lo faccio perché so che per lei è importante, ma in quel momento mi sento come quella che ti ricorda che la tua vita sarà sempre così: una successione di cose che si ripetono e alle quali bisogna adeguarsi per forza. Questo pero è solo un mio problema e quando in alto sulla scaletta, come prima cosa, fisso il cartellino colorato con il nome del giorno lei mi sorride. Dunque forse è da lì che è ritornata in auge la canzone: “Era Lu-lu lu..” Lunedì è facile da ricordare: è quello con cui comincia la canzoncina, martedì anche, perché viene subito dopo. Mercoledì è una sfida logopedica, un inceppamento, e finisce col diventare il vuoto che sta nel mezzo, così si salta subito a giovedì. Venerdì a volte c’è, a volte non c’è. Sabato e domenica si perdono nelle retrovie. Qualche settimana fa se ne stava seduta al centro del lettone. Erano circa le otto e mezza e io le stavo scegliendo i vestiti da metterle indosso. Ho steso pantaloni e maglietta sul piumone, e ponderavo se si trattasse di cose troppo pesanti o troppo leggere per un gennaio meteorologicamente enigmatico. Lei mi guarda e dice:
“Dormedì”.
“Come dormedì? – le sorrido, con una saccente compiacenza da adulto – forse vuoi dire domenica, ma oggi non è domenica.” Lei insiste: “Dormedì.” E allora mi ravvedo: mi trovo davanti alla fermezza del creatore che dà forma a quello che prima non c’era. Piazzata tra un fagotto di coperte e dei cuscini ammonticchiati lei ha evocato dal nulla il Giorno in cui si dorme, che è distinto dalla domenica. In che cosa consista Dormedì non me lo dettaglia, almeno per ora, così io mi immagino che sia una giornata in cui si dorme e basta, si poltrisce senza andare a far visita ad alcuno, senza dover proprio uscire di casa, il giorno del ghiro, della marmotta in cui si passa il tempo nel tepore della propria tana. Il giorno che implica il qui e ora, un’unica ora oziosa prolungata per ventriquattro ore. Dormedì: il giorno della sospensione. L’invenzione rispecchia l’inventore: Dorothea, la bambina sospesa, evanescente, che più di tutto ama starsene sdraiata e prendere le coccole, che ti risponde solo quando lo decide lei. Dorothea che se ne frega della consequenzialità e della definizione. Dorothea e la sua eccezione che sovverte quello che prima sembrava certo e imprescindibile. Dormedì mi sembra una bella invenzione come la possibilità di un riscatto: riconoscere il valore che sta oltre la regola e oltre le scalette. Il Dormedì non è un ottavo giorno, è una ricorrenza che accade quando si decide che sia il momento giusto per farla accadere.
Forse Dorothea è nata proprio di Dormedì e io non lo sapevo.