Le feste alla scuola di Dorothea mi sono antipatiche, quelle di Natale in particolare. Nella mia personale classifica delle cose sgradevoli che non si possono evitare sta alla stessa posizione con l’andare a fare le analisi del sangue: il disagio di lavarsi e vestirsi di prima mattina, a digiuno, senza caffé, per uscire di casa e rimanere mezz’ora in coda davanti a uno sportello. Il tutto per farsi bucare un braccio da un infermiere che si spera si sia svegliato di buon umore. Ci sono dei motivi ben precisi per questa mia insofferenza, alcuni dei quali son sicura che siano condivisi con tanti altri genitori. Nel mio caso si riferiscono al momento più importante, quello dello “show”.
Andando per ordine, al primo posto c’è la “divisa” da far indossare per la recita-esibizione corale. Rispetto a tante altre madri, a me va di lusso. Niente cose strane, tipo la calzamaglia verde pistacchio che una mia amica non trovava nemmeno su ebay. Dorothea frequenta una scuola comunale di periferia e le richieste delle sue maestre sono assai modeste: una semplice maglietta, il cui colore cambia di anno in anno. Penso che all’origine di questa formula ci sia un criterio paritario: evitare le mise da festa e mettere tutti sul piano di una sobria egalitarietà. Che alla fine viene sempre raggirata dalle madri e dalle bimbe più ambiziose: quest’anno dovevano essere tutti con una maglia rossa e io, che non ho imparato a farmi furba, mi sono attenuta alle indicazioni, il risultato è stato che a fianco di bambine con miniabiti rossi sberluccicanti di paillettes, mia figlia sembrava la giovane pioniera di un kolchos sovietico.
Poi c’è l’ora e il giorno. Di solito la festa è in orario digestivo: le 14,30. Questo è pianificato in modo che la fine dell’evento coincida con l’uscita pomeridiana delle 15,45. Il giorno è rigorosamente feriale, circa due settimane prima del Natale. Tutto va a esclusivo beneficio della scuola con scomodità estrema dei genitori che lavorano e con la quasi sicura rinuncia di uno di questi (di solito chi si salva è il padre). Le 14,30 è l’ora dell’abbiocco universale, in cui se interrompi il tuo ciclo continuo di attività anche solo per dieci minuti ne puoi avere forti scompensi, e qualsiasi cosa sia tu abbia introdotto nello stomaco a pranzo, dal panino ingurgitato in piedi facendo shopping natalizio o alla pasta cucinata e consumata nel comodo di casa tua, ti si piazza lì e offusca pensieri e volontà.
Il terzo motivo è il dover sopravvivere al pubblico dei parenti. I nonni sono come ultras che non s’accontentano dei posti in curva e con la scusa dell’età si conquistano lesti lesti le uniche sedie a disposizione. Rimangono solo i posti in piedi sugli spalti delle proprie gambe. Se proprio ti vuoi sedere c’è la primissima fila, ma a patto di stare con le chiappe a terra. A prescindere dalla postazione, bisogna sgomitare tutto il tempo per difendere il proprio campo visivo dalle intrusioni di smartphone, e, ahimé anche degli i-pad, esosamente adoperati come foto e tele camera. Queste sono le antipatie che penso di avere in comune con molti, ma ci sono anche le cose che mi avvicinano a pochi altri.
Premetto che ho sempre avuto delle riserve su questa cosa di far esibire i bambini, forse perché sono una schiva di natura: non tutti sono propensi a mettersi in scena. Per alcuni piccoli l’esibizione della recita è un momento drammatico, che provoca ansie, ricordo ancora il pianto a dirotto di uno dei miei nipoti che, vestito da angioletto, aspettava di salire sul palco per la prima prova d’attore della sua vita. Ma ci sono i casi dei bambini “speciali”, come Dorothea, che diventa “la voce fuori del coro” l’outsider, quella che mentre gli altri cantano e recitano rimane impassibile e con la bocca aperta. Oppure si alza e se ne va per i fatti suoi, nonostante gli strenui tentativi della maestra di sostegno di tenerla al suo posto.
Io non so per quanto andrà avanti così, ma finora da queste circostanze concepite con l’intento di dare gioia ai bambini e ai genitori che li assistono, io ne ho sempre solo ricavato una fitta alla milza. Posso anche raccontarmela, come ho fatto l’anno scorso, quando lei “impallava” i compagni che declamavano una poesia camminando avanti e indietro: “Vai così, lei è uno spirito anarchico, una libera”. La fitta alla milza rimane e s’intensifica. Qui viene in ballo il discorso della cosidetta “integrazione”. È giusto che lei faccia parte di questo evento, come tutti gli altri bambini della sua classe, mi si dirà. E poi c’è anche una sfumatura educativa: anche lei si deve abituare a stare in fila, ad adeguarsi.
Ma dato che non mostra di essere tanto interessata all’iniziativa forse non sarebbe meglio “risparmiarle” l’esperienza, così come sarebbe giusto risparmiarla ai bimbi che non se la sentono di mettersi in mostra solo perché ci sono altri che lo fanno e ai quali non riesce faticoso farlo? Non è che voglio tenere mia figlia sotto una campana di vetro, e non è solo per il dolore che provo nel vedere come, in queste occasioni, la sua diversità rispetto agli altri risulti più accentuata in quanto “qualcosa che non funziona come dovrebbe”, ma ogni volta che mi trovo lì mi chiedo perché questo avvenga e mentre assisto alla scena sento una distonia, come di un rituale che avviene a forza, per “fare finta di”. Questo mi offre lo spunto per pensare che è il caso di rivedere il concetto di integrazione, sfrondarlo dei suoi aspetti più generalizzanti. A volte la diversità va semplicemente riconosciuta, accettata e, in quanto tale, anche preservata. La diversità non è solo “quello che non è” rispetto alla norma. Anche se la norma sembrerebbe più facile da contenere e da gestire.
E chi già di suo indossa le paillettes sia libero di brillare come gli viene meglio.