Questo post è fatto di pagine che risalgono a quand’ero ancora dipendente. (“Dipendente”: una parola dai significati plurimi. Meriterebbe un discorso a parte.)
Il mio capo mi dice “Qui non siamo alle poste”. Lo so bene. Quella per cui lavoro, da più di dieci anni, è una multinazionale americana. Una di quelle grandi e prestigiose, che ogni volta in cui ho raccontato che sono impiegata lì il commento è sempre stato: “Ma dai!”. L’azienda con il marchio più affascinante. A esibirlo si fa sempre una certa scena. Il mio Capo mi fa capire che non si possono prendere permessi in continuazione, e che quando poi si è in ufficio bisogna avere la testa su quello che si fa. Dovrei considerare i suoi consigli, perché non ho nessuno che “mi protegge”, qui dentro. E conclude: mia cara, C’est la vie. Il mio Capo è giusto che faccia il capo. Deve rendere conto al suo, di Capo. Che a sua volta deve fare tutte le cose a puntino, per rassicurare uno ancora più in alto. E via di questo passo, fino al Padre Eterno Aziendale. Come dice le cose, ecco questo no, non mi va giù, le manca stile, fantasia. Possibile che non riesca a tirare fuori niente di meglio che queste battute alla Vito Corleone? Ma sul concetto in sé non posso darle torto: l’azienda non è un’istituzione no-profit. E quando io sono qui, sono a disposizione dell’azienda. È innegabile che io non sia più quella di una volta. Il fatto è che, anche se volessi, non potrei più funzionare come prima. E non solo perché ho una figlia con dei problemi. Mi sono “guastata” internamente. Si è rotto quel meccanismo che mi faceva essere una devota impiegata. Non già una brava manager, anche se c’è stato un momento in cui mi ero messa in testa di diventarlo e di sicuro la buona volontà non mi è mancata, mai. Il mio riferimento adesso è piuttosto Bartleby lo Scrivano. Sono disfunzionale. Da qualche tempo ho anche smesso con gli straordinari. Non lavoro più di sabato o di domenica, né di notte, e quando mia figlia s’ammala non chiamo una babysitter: con lei rimango io. Quando sono ammalata o in assistenza di mia figlia, non lavoro più da casa. Tuttavia resto attaccata alla scrivania, tenacemente. Per paura, o per senso di responsabilità in qualità di genitore-che-porta-lo-stipendio-a-casa, a seconda di come la si voglia vedere. Il mio Capo, insieme al suo, mi hanno fatto un discorso. Un giorno mi hanno portata a pranzo in uno dei ristoranti più apprezzati del quartiere e, tra una tagliata di carne e un caffé, mi hanno detto che dovrei decidere che partito prendere e che se voglio ancora stare dentro, devo cambiare il mio mind-set. Nel frattempo hanno hanno cominciato a “smantellarmi”. Non possono licenziarmi, ma smontarmi un tassello alla volta sì. È un processo che non fa rumore, che non dà (quasi) nell’occhio. Mi affidano piccoli progetti di cui non sono più la responsabile. I miei responsabili, invece, sono gli interinali ventenni, quelli operativi ventiquattr’ore su ventiquattro. Se fossimo in una scuola ai tempi di Collodi, io sarei quella in castigo dietro alla lavagna, faccia al muro, ma senza cappello con sopra scritto “Asino”. Vuoi per una questione di immagine, vuoi perché, diamine, certe cose non si fanno più. Non vengo più invitata ai meeting importanti, quelli con i colleghi e i partner delle sedi internazionali, manager con cui avevo sempre lavorato, magari più alti di livello rispetto al mio, ma ai quali mi ero sempre rapportata senza problemi. Dalla mia postazione li vedo uscire dalle sale riunione e tengo la testa bassa per non essere riconosciuta. Io sono in rottamazione. E succede una cosa curiosa: comincio a sentirmi stupida e incapace. Poi una mia amica e collega ha deciso di iscriversi al sindacato. Ha fissato un appuntamento con un funzionario e ho deciso: vado con lei. Facciamo così conoscenza con un signore di circa sessant’anni, viso tondo e baffoni aggettanti. Lui è appeno sceso dallo scooter, tiene il casco appeso a un braccio e ci dà una bella stretta di mano, come quella che mi ha insegnato a dare mio padre quand’ero bambina. Mi ricorda Gino Paoli, ma mica solo per i baffoni. Forse per via della testa lucida e per un certo modo di fare, un po’ schivo e sbrigativo. Quando gli spiego come stanno le cose lui va subito al nocciolo della questione e mi spiega che denunciare il mobbing non è una cosa tanto facile. “Devi avere delle prove”, taglia corto. E sei sicura che, qualora ne avessi bisogno, avresti qualcuno disposto a testimoniare in tuo favore? No, penso che non avrei nessuno, ma non perché nessuno sia disposto ad aiutarmi. È la situazione che è balorda in sé, come posso chiedere a dei colleghi di mettersi contro ai Capi in favore della mia causa? Ma prima di rassegnarmi provo anche un’altra strada. Da una consulente del lavoro cui mi ero inizialmente rivolta per avere qualche suggerimento su come risolvere la mia situazione mi sono fatta convincere a contattare una sua amica avvocato, una vera a propria combattente a favore dei diritti delle donne che subiscono maltrattamenti sul lavoro. La consulente è così premurosa da accompagnarmi lei stessa al primo incontro. Lo studio dell’avvocato è in un palazzo di inizio Novecento, in una delle zone più prestigiose della città. L’avvocato è una donna ancora giovane, bella, dal naso grifagno e fiera come un purosangue. Una Cleopatra in tailler. Ci fa accomodare in un arioso salotto. Le finestre danno su un giardino interno e filtrano la luce ambrata di fine settembre. Lei va alla scrivania, noi le sediamo davanti, io cerco di darmi un tono, ma non so dove sistemare la borsetta così l’appoggio a terra e me la ficco tra i piedi, Lucia Mondella avrebbe fatto così. “Essere mamme e lavorare in azienda non è facile” esordisce e mi sorride, mostrando una dentatura perfetta per mordere. I figli si ammalano, i figli vanno seguiti. Lei lo sa bene, meno male che adesso i suoi sono cresciuti, che vanno già a scuola e sono più indipendenti. Dunque questa donna favolosa ha anche dei figli, più di uno. Bambini che, dai pochi cenni che dà, risultano “sani”. Come sarei io, adesso, se Dorothea fosse “sana”? Sulla parete, davanti a me, c’è un grande ritratto a olio, senza cornice, con due faciulli dalla pelle trasparente e malinconici occhi indaco. È nello stile di un’artista che ho conosciuto di persona. Una che ritrae solo bambini e adolescenti conferendo loro un’aria malaticcia. Chissà se il quadro è proprio di quell’artista, chissà se quelli nel quadro sono i figli dell’avvocato. Qualche migliaio di euro, l’opera, li deve valere. “Dunque, mi racconti”, incalza la donna-ippogrifo. Io mi sono preparata un discorso, ma lei mi interrompe quasi subito. Prende la cosa di petto, mi avanza ipotesi, soluzioni. S’infervora. Ma perché non mi fa parlare, come fa a sapere che cosa dire se io ancora non le ho spiegato tutto? Lei racconta di un caso che ha appena risolto con successo, sempre contro una multinazionale americana di quelle potenti. Un caso analogo al mio. È bastata una sua lettera a far immediatamente reintegrare i lavoratori nelle loro mansioni. “Se vuole posso fare altrettanto con Lei”, e si sporge verso di me. Ma prima ci vogliono le prove: email ricevute dai capi, o altri documenti significativi. Devo stilare un resoconto da cui emergano tutti i dettagli della mia situazione. Mi scambio uno sguardo d’intesa con i fanciulli dagli occhi indaco. Il resoconto lo posso fare, ma le email? I miei capi non scriverebbero mai quello che è molto più efficace e meno richioso dire a voce. A parte la rabbia e la frustrazione non ho niente di “tangibile” da dimostrare. Esco dallo studio frastornata e mi congedo dalla consulente sforzandomi di sembrare carica e determinata, per non farle dispiacere. Il sole e l’aria mi lusingano, ma devo tornare in ufficio. E non ho nessuna convinzione circa il risultato che verrà fuori da questa ennesima incombenza: mica è una roba da poco, stilare un resoconto. Però decido che mi ci metterò d’impegno. Da quel giorno in avanti, alla sera, dopo che ho messo a letto mia figlia, ci dedico il tempo prima del sonno. Infine scartabello i miei archivi di posta dell’ufficio, riuscendo a mettere insieme solo un insignificante numero di messaggi in cui trapela un po’ di arroganza, di piglio da superiorità. Niente più. Stampo il tutto e lo invio all’avvocato. Quest’ultima si rifà viva dopo la festa dell’Immacolata. Mi convoca nel suo studio. “Ho letto, se vuole scriviamo una lettera chiedendo il suo reintegro.” Reintegro? Ma quale reintegro. Ci ho pensato bene. Anche se mi restituissero appieno tutte le mie funzioni non potrei sostenere le richieste di tempo e di impegno imposte dal mio livello. E in più vuoi che non me la facciano pagare? Non avrei la forza d’animo, i nervi, per affrontarli come si dovrebbe. Devo essere realistica rispetto alle mie reali capacità e possibilità. Visto che non sono nelle condizioni di portare avanti il mio lavoro per le difficoltà insorte, visto che ormai tutto quello che rappresenta il mio lavoro mi sembra diventato un complicato intrigo di operazioni il cui valore e scopo mi è sempre più estraneo, preferisco tenere la testa bassa, sopportare e scoprire su quali tutele, piuttosto, io possa fare affidamento. A gennaio mi rivedo con il funzionario e la mia amica, che è ormai diventata sindacalista. Appuntamento nella taverna di un ristorante, poco illuminata, che fa molto tana del cospiratore. Davanti a un piatto di maccheroni al sugo Gino il baffo pronuncia solenne: “Devi chiedere la legge 104”. Capisce che non ho idea di che cosa parli e allora indulge a una spiegazione: è quella legge quadro che tutela le persone disabili e i loro famigliari. Per averlo bisogna che mia figlia venga riconosciuta come disabile. Disabile. Un altro marchio, ma di tutt’altro tipo. Questo qui non lo si esibisce mica. Chiudo la testa nelle spalle. E sia. Vado avanti. Nel giro di tre mesi ho la “certificazione”. Con questa non solo posso prendere permessi retribuiti fino all’equivalente di tre giorni lavorativi al mese, ma posso anche chiedere il part-time. Il direttore del Personale me lo concede all’istante. Il mio Capo si rifiuta di ricevermi in ufficio, e parte per il week-end senza rivolgermi la parola. Dunque sono ancora dentro, e insieme sono fuori. Faccio quello che devo e quello che posso. Resisto e tiro avanti, finché sarà il momento di fare un altro passo. Dopo tutto, c’est la vie. ————– Il cartello “Caution Mob at Work” è presto dal sito: http://www.examiner.com/article/an-overview-of-mobbing-the-workplace
il mondo è pieno di “Corglioni”…
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ah ah… purtroppamente;-)
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