Il kung-fu ci salverà

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Di solito si pensa che uno nasca con un handicap, o che l’handicap insorga come la conseguenza di un incidente o di una malattia. Ma che dire dell’handicap per inattività? Per dimenticanza di una parte di sé? Anche stavolta parto dal mio caso personale. Ho fatto attività fisica sin da quand’ero bambina: nuoto, atletica, yoga, alpinismo, arrampicata. Non ero certo Lara Croft, ma compensavo il livello medio delle prestazioni con una certa tenacia. La nascita di Dorothea ha segnato un periodo di fermo: non avevo né il tempo né la fantasia di fare sport o anche solo un po’ di yoga, e il mio corpo non era affatto contento di questa quiescenza. Mi mandava segnali inequivocabili. (Ogni corpo ha un canale preferenziale per farsi sentire da chi lo abita, e più si cerca di ignorarlo, più questo alza la voce. Il mio era arrivato a urlare, con insopportabili dolori per un’infiammazione a un tendine della spalla di cui fino a poco prima ignoravo l’esistenza: il cosidetto “sovraspinoso”.) Poi un giorno sono passata per una viuzza che collega due delle arterie più trafficate della mia zona e che faceva parte del mio itinerario di rientro dall’ufficio. Sul portone di un edificio industriale stavano piazzando un cartello: “Centro Culturale Shaolin”. E vai, mi son detta, finalmente si torna a fare qualcosa: da un trespolo piazzato sulla strada, davanti allo stesso portone, ho preso un volantino e son filata a casa. C’era tutto un elenco di attività che era possibile praticare, al Centro, e per conoscerle veniva data la possibilità di partecipare a un open day. Io era da un pezzo che avevo la fissa di praticare tai-chi: ah, quei movimenti morbidi, soavi, armoniosi… Un’arte marziale, sì, ma comoda, alla mia portata. Così mi sono presentata all’evento aperto al pubblico in quello che, come ho poi avuto modo di scoprire, era un vero e proprio Tempio. Sono arrivata coi tempi un po’ tirati, come il mio solito, e ho raggiunto la palestra che è ricavata da uno stanzone in cui, fino a poco fa, dovevano starci dei macchinari: i soffitti sono alti almeno sei metri, illuminati da ampie prese di luce. Alcuni persone stavano bivaccando davanti alla porta, ci sono passata in mezzo per piazzarmi vicino a uno che indossava una misteriosa divisa grigia, con i polpacci fasciati da bande bianche sostenute da strisce di stoffa nera incrociate, al modo dei pastori del presepe, la giacca stretta ai fianchi da una cintura di seta rossa. Il resto della gente, in confronto, sembrava un branco di sfollati dal relax domenicale: pantaloni sformati della tuta e maglietta, calzoncini e felpa. Davanti a me c’era persino un irriducibile, in jeans e camicia da montanaro. S’era arrotolato le maniche esibendo un puma che spiccava un salto tra i peli dell’avambraccio. Io, giusto per non essere da meno, avevo messo le Superga con sopra Minnie, l’unico paio di scarpe da ginnastica che mi era rimasto. È entrato un uomo vestito d’arancione, il cranio quasi completamente rasato. La sua età era indefinibile. Forse perché, così mi veniva da pensare, non era un uomo, ma un essere a metà tra l’elfo e il marziano: la pelle del volto sbarbato era candida, gli occhi grandi, di un azzurro trasparente. Agile e pulito nei movimenti, austero. La piccola folla davanti alla porta si è sciolta all’istante; alla spicciolata ognuno si è distribuito nella palestra, ricavandosi il proprio angolo di spazio. Doveva essere lui: Maestro. Ha esordito annunciando che noi occidentali abbiamo perso il rapporto con il corpo, non lo muoviamo più. E, se ricordo bene, definì la nostra civiltà “nevrotica”. Poche parole, nette, forti, che lo hanno reso ancora più lontano, quasi irraggiungibile. Poi è entrato nel vivo della dimostrazione, invitandoci a seguirlo: gli occhi devono sempre guardare le mani, spiegava. Ha incominciato a muoversi, i suoi gesti erano lenti, e solo all’apparenza semplici: mentre un braccio s’alzava, ecco che una gamba andava in un’altra direzione e così via. Il guaio era che non riuscivo a guardare le mie mani se dovevo guardare lui. Quelli che mi circondavano non se la cavavano meglio di certo. Il tizio in jeans sbuffava e alla fine ci ha rinunciato. Non azzeccavo un passaggio, quando mi concentravo sulle braccia, mi perdevo le gambe e via di seguito. Mi sentivo frustrata, e mi è montata su l’irritazione. La sequenza non sembrava finire mai. Quando finalmente è terminata mi aspettavo che il Maestro si soffermasse a illustrarci i dettagli. Invece no:  è ripartito, senza quasi spiegare niente. Ok, era una sfida, ma adesso avrei fatto più attenzione. E infatti andava un po’ meglio di prima, la sequenza sembrava meno lunga, ma la dimostrazione era finita lì, senza ulteriori commenti. Il Maestro ci ha salutato e con la stessa rapidità con cui era comparso qualche minuto prima, se n’è andato. Dunque, niente spiegazioni, avrei solo dovuto seguire quello che mi veniva mostrato. La mia poetica attrazione per il tai-chi è svanita di colpo. Ma c’era altro: sentivo nel corpo un’energia che richiedeva un movimento più veloce, più potente. In altre parole, avevo bisogno di scaricarmi. Forse il tai-chi non mi sarebbe bastato. E se avessi provato addirittura con il kung-fu? Ho scritto al Tempio spiegando che avevo da molto superato i vent’anni. Qualcuno, non avevo ben idea di chi potesse essere il mio interlocutore, (e mi sentivo un po’ intimidita all’idea che fosse il Maestro in persona), mi ha risposto che non c’era problema. L’email del tempio si concludeva con “Amitofo”, un saluto che invoca il nome di Buddha. Ma io allora non sapevo neanche che cosa volesse significare e provavo un senso di misterioso timore. Che strada stavo imboccando? Dove mi avrebbe portato tutto questo? Mi sono ripresentata. Sempre con le Superga di Minnie. In palestra c’era lui, lo splendido Maestro. Mi ha accolto con un sorriso carico di benevolenza e comprensione, mi ha affidato a un praticante già avviato ed è uscito. Poi, dopo che abbiamo fatto qualche giro di corsa e alcuni esercizi di riscaldamento è ricomparso e così ha avuto inizio la vera e propria lezione. Ho perso la memoria di quello che è avvenuto nei restanti quaranta minuti, ma ricordo benissimo che negli ultimi cinque, mentre mi davo da fare a tirare pugni all’aria, sono stata sul punto di svenire un paio di volte. Con il corpo liquefatto dalla testa ai piedi mi sono presentata davanti a lui e senza essere davvero sicura di essere in grado di intendere e di volere ho pronunciato: mi presenterò alla prossima lezione. E, insomma, finora non ho mollato. Vero è che questa disciplina marziale non presuppone da subito l’agilità e la prestanza fisica di Bruce Lee. Si procede per gradi e la difficoltà aumenta progressivamente. Si parte dai cosiddetti esercizi “fondamentali”, che sono la base delle tecniche di combattimento: pugni, parate e calci. Ed è proprio alle prese con questi fondamentali che il kung-fu mi ha messo faccia a faccia con i miei handicap, fisici e mentali. Se, ad esempio devo stendere la gamba in avanti per sferrare un calcio e contemporaneamente muovere in avanti il braccio dello stesso lato e colpire il piede con la mano, la gamba si distende, la mia manina si spinge in avanti, ma di toccare il piede non se ne parla. E non perché non ci arrivi a toccarlo. Da ferma è una cosa che riesco a fare, il problema è nel coordinamento tra stimolo e reazione, in movimento. Ho la riprova di come il corpo e la mente a forza di non essere sollecitati, si sclerotizzino in schemi sempre meno complessi, minimali, riducendo le proprie capacità al minimo indispensabile, e magari non arrivando neanche a quello. E non si tratta del fatto che ho ormai quarant’anni. Tra i praticanti, in quei primi giorni del mio primo anno di kung-fu, c’erano ragazzi e ragazze molto più giovani di me, anche loro neofiti e anche loro alle prese con le mie stesse difficoltà. La nostra è una limitazione che si crea poco a poco. La maggior parte di noi nasce con un corpo in grado di funzionare a meraviglia e proprio perché ce l’ha dalla nascita non gli riconosce il valore che gli è proprio. Ci danno nell’occhio le persone che non riescono a compiere le cose che a noi vengono tanto spontanee, in genere ci basta camminare e stare seduti al volante o al computer, avere l’abilità di eseguire le cose che facciamo ogni giorno. Ma un’abilità che è sempre più ridotta e meccanica in che misura può essere considerata veramente tale? Mi viene il sospetto che il termine “nevrotico” non fosse poi così tanto esagerato. E adesso dovrei proprio cominciare a fare tai-chi. 2576_57649750689_712030689_1456712_

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