Qui si parla di un passaggio scomodo, che non ha niente di attraente, nel senso di piacevole, di stuzzicante: non fa ridere, non ha neanche un po’ di ironia che lo renda un po’ più leggero. E allora perché raccontarlo? Perché penso sia importante dare luce anche alle cose scomode, quando sono così scomode che non riesci a esorcizzarle in nessun modo. Forse hanno bisogno di essere viste per quello che sono. Se ve la sentite, leggete, se non siete dell’umore, andate liberi, ci incontriamo in un altro momento. Pomeriggio di marzo, il sole sbadiglia da sotto la sua coperta: sarebbe proprio ora che se la togliesse di dosso. Sono le tre, l’ora più esigente, quella che ti chiede già il resoconto di quanto non hai ancora fatto. Sul lavoro ho strappato l’ennesimo permesso e ora cammino verso il luogo dell’appuntamento. Questa è una tappa obbligata, non sono io quella che decido. Devo solo pensare a muovere un passo dietro l’altro e arrivare là dove è richiesta la mia presenza. Le cose, poi, avverranno da sé. La via è questa, il numero civico si trova un poco più avanti. Mi si accosta la macchina azzurra, come la chiama Dorothea. Lei è dietro, infagottata sul seggiolino, assonnata. Mio marito abbassa il finestrino. In testa ha il cappello di pelle di canguro che abbiamo comprato assieme, in un viaggio che è una vita fa. Prendila, mi dice, io cerco parcheggio. L’edificio c’era da aspettarselo che fosse così. Un minuscolo ascensore ci attende con la bocca già spalancata. Una lampadina tombale è sufficiente a illuminarne il pavimento dagli angoli sporchi. L’ascesa è cieca, misteriosa e ci depone all’inizio di un corridoio lungo e stretto, con un soffitto enormemente alto, istituzionale. Le porte sono di legno, coperte da più strati di vernice. Non c’è nessuno cui chiedere indicazione. Ci accampiamo con borse e cappotti su una fila di sedili, quelle da anticamera del medico della mutua. Io sto seduta, mio marito rimane in piedi. Dorothea perlustra lo spazio che la circonda, saltella. Attendiamo. Compare un’altra coppia con un bambino down. Il bambino si avvicina a Dorothea, lei lo ignora. Incontro lo sguardo dei genitori, nei sorrisi che ci scambiamo trapelano tutte le cose che non si possono dire. Una delle porte di legno si apre, una donna s’affaccia e dice il nome e il cognome di mia figlia. Nome e cognome, messi insieme così, hanno quella lapidarietà che non riesco ad accettare. Entriamo tutti e tre in un salone che ricorda un’aula scolastica, dietro a una fila di tavoli ci sono le “esaminatrici”. Sono in tre, come le Parche, mi viene da pensare. Ho la sensazione che oggi sia io a dover sostenere un esame, quello per l’abilitazione al Disagio. Il disagio di dover prendere le cose per quello che sono. La piccola non fa caso alle donne, fa la scanzonata, inevitabilmente non risponde al-come-ti-chiami, ma, con mia stessa sopresa, fa alcune delle cose che le vengono richieste: “sali qui, siediti”. Poi però si stufa di starle ad ascoltare. Ammicca, reclina la testa, e scoppia a ridere. “Be’ sembra comunque intelligente” dice quella al centro. Ci fanno uscire. Mi lascio andare di nuovo su uno dei sedili, attiro Dorothea verso di me, la bacio sulla nuca. Si siede anche mio marito, teniamo tutti e due gli occhi a terra. “Hai visto, – fa lui – ha detto che, comunque, sembra intelligente”. Sì, ho sentito, ma non so dove porre l’accento: su “intelligente” o su “comunque”? Ci richiamano nell’aula e ci consegnano la diagnosi funzionale: a Dorothea, che a settembre comincerà la scuola materna, spetta un sostegno elevato, fino alla quinta elementare. Riprendiamo l’ascensore come un dolore che non è possibile evitare. Salgo in auto. Nella testa non ho nemmeno un pensiero che sia in grado di venire allo scoperto. Mi sa che l’esame mio personale non l’ho passato, sono troppo ancorata al verdetto di una commissione dell’Asl. Eppure Dorothea crescerà, a prescindere da tutto questo. Ed è un bene che le abbiano riconosciuta la necessità di un sostegno elevato, fosse anche solo per darle la possibilità di essere seguita al meglio, dal momento che, comunque, è intelligente. Me lo devo ficcare nella testa: le cose avveranno da sé. Mio marito accende la radio, ti accompagno in ufficio, mi domanda. È l’ora dell’uscita dalle scuole, le soste ai semafori non hanno mai fine. Al nostro fianco, sulle rotaie, un tram fila indisturbato tra due colonnati di olmi. Deve essere bello stare lì dentro, sopraelevati rispetto all’ingorgo di diesel e benzina. Ci si deve sentire leggeri, come in un giro turistico. Perché è semivuoto? Perché non siamo lì dentro? Perché preferiamo rimanere bloccati nella convinzione di essere più comodi e indipendenti? No, questo pomeriggio non tornerò in ufficio. Quel poco di intento che per oggi mi è rimasto, voglio spenderlo in un’altra direzione. E se salissi sul tram? Chissà dove mi porterebbe.
L’abilitazione al disagio
L’immagine è presa da http://www.monstersupplies.org