
L’episodio che sto per raccontare non ha a che vedere con il discorso dell’ “unicità” in senso stretto, ma mette in evidenza una cosa: neanche i bambini “abili” hanno vita facile. Anzi, proprio in quanto sani, intelligenti e via dicendo devono sottostare a pressioni di ogni genere, soprattutto da parti “insospettabili”.
Breve premessa: in queste settimane sto “andando per scuole”. Dorothea è all’ultimo anno di materna e anche se molto probabilmente dovrà fare un anno di cosiddetta “saldatura”, ho cominciato a valutare quale soluzione, tra le strutture, gli ambienti e i metodi disponibili, possa fare meglio al caso suo. Ho voluto prendere in esame anche delle scuole paritarie, nonostante l’onere della retta mensile. Nella mia ancora embrionale preparazione in materia, il che è un modo elegante per dire “ignoranza”, ho sempre pensato che le scuole con delle alternative ben strutturate e consolidate dal punto di vista didattico fossero quelle montessoriane e steineriane. Era arrivato il momento di acquisire qualche nozione in più, toccando con mano, andare oltre quell ‘aut-aut Steiner o Montessori che assomigliava più a qualcosa del tipo Beatles o Rolling Stones? Vacanze al mare o in montagna? Con la pizza, birra o Coca-Cola?
Tre settimane fa sono stata a vedere la Scuola Steineriana, non potevo non fare una visita anche a una scuola Montessorriana, fosse solo per un discorso di par condicio. Ce n’è una a qualche chilometro da casa nostra, dove, sabato scorso, era in programma l’open-day.
Salone strapieno di genitori. Dopo la proiezione di un video dall’atmosfera rarefatta, con primi piani su manine che mettevano fiori di zucchina in cesti di vimini, ha preso la parola una signora dal piglio autorevole che ha fornito qualche informazione generale sulla scuola, “dal bilancio solidissimo”. Quindi è intervenuta la coordinatrice delle attività (suppongo stia per direttrice), una lady in tailler grigio-verde. Questa, oltre a presentare le linee generali del metodo didattico, ha dato anche qualche cenno biografico sulla grande pedagoga, di cui fino a stamattina sapevo poco o niente. Lo ammetto, mi sono spuntate le lacrime agli occhi. Era una donna straordinaria, la Maria: alla fine dell’Ottocento ha messo in evidenza la necessità di formare insegnanti in grado di stare dietro ai bambini disabili. Le ho voluto da subito un gran bene, a quell’illuminata.
Al termine dell’introduzione, invitati dalla Lady, noi tutti genitori bramosi di conoscere qualcosa di più a proposito della scuola primaria ci siamo trasferiti nella biblioteca, dove una maestra ci avrebbe raccontato una giornata tipo, con il supporto di una serie di fotografie trasmesse su uno schermo touch screen di dimensioni galattiche .
E anche qui tutto bello: i bambini che al mattino posano cappotti e scarpe negli armadietti e indossano pantofole, per stare più comodi, per sedersi a terra e leggere libri, appoggiati a cuscini. I tavoli sono radunati “a isola”, a gruppi di quattro-cinque, non ci sono cattedre (o, almeno non m’è parso di vederle visitando le aule) verso le quali i tavoli siano orientati. Sono gli insegnanti che ruotano attorno ai tavoli. Insomma, veramente un capovolgimento “copernicano”.
Che i bambini siano al centro, come dei piccoli soli, la coordinatrice l’ha sottolineato ulteriormente, lanciando una voce alla maestra, da in fondo alla sala: “Vada più veloce, di là ci sono i bambini che aspettano!”. Questo perché gli alunni della scuola, per l’occasione, presenziavano nelle classi, dando la possibilità ai genitori in visita di poter assistere alle lezioni di musica e d’inglese. La maestra ha così accelerato il ritmo, e di molto. Una mamma ha chiesto se si potessero fare delle domande. “Certo, – ha risposto la coordinatrice, che nel frattempo aveva guadagnato un posto in prima linea di fianco alla maestra – le potete fare direttamente alle alunne che frequentano la quinta. Venite, ragazze, venite.”
Tre bambine in leggins e scarpe da ginnastica si sono fatte avanti a fatica tra tutta la gente assiepata nella sala. Si sono sistemate nell’unica zona libera, coprendo lo schermo touch screen. Davanti a loro, accomodati su più file di sedie, in piedi contro il perimetro del muro, ingorgati contro la porta, appoggiati agli scaffali, uomini e donne, tra i trenta e i cinquant’anni.
Ciascuna bambina si è presentata col proprio nome, precisando di aver frequentato lì sia la materna che le elementari.
“Dì che cosa ti è piaciuto di più in questi anni” ha cominciato la direttrice, rivolgendosi alla prima.
Questa, sfregandosi le mani contro le cosce, ha sorriso, mostrando la montatura argentea dell’apparecchio: “Non saprei…”
“Ma ci sarà qualcosa che ti è piaciuto particolarmente.”
“Ecco, sì: le gite.”
Risata in sala.
“E nient’altro?”
L’argento dell’apparecchio ha brillato: “La visita dei medici di Emergency che ci hanno raccontato degli ospedali aperti in Africa.”
“E a te che cosa è piaciuto?”
La seconda bambina non sorrideva, si sfregava solo le mani sui lati delle cosce:
“Le gite”
Risata più forte.
“Le gite soltanto? – il collo della direttrice s’è allungato, la pelle sotto il mento si è tesa – dì almeno qualcos’altro che è successo dentro la scuola.”
“La visita dei medici di Emergency.”
È così arrivato il momento della terza bambina, la più minuta di tutte e tre, con una giacchina alla Ricky Cunningam e una sciarpa avviluppata attorno al collo.
“Non dirmi “le gite”, dimmi qualcosa che è successo dentro la scuola”
“La visita dei medici di Em…”
“A parte questo. Ci sarà qualcosa!”
La piccola, che non sorrideva, che non si fregava i palmi delle mani contro le cosce, ha deglutito, ha serrato gli occhi. Li ha riaperti: “Il grande quadrato delle divisioni.”
“E perché?” ha ripreso fiato la direttrice.
“Perché prima non le sapevo tanto fare, le divisioni, poi così con quello ho imparato.”
La Lady si è rivolta alla sala e, solenne, ha abbracciato tutto il pubblico con lo sguardo: “Bambine, qui ci sono tanti genitori che devono decidere se portare i loro bambini in questa o in un’altra scuola. Voi che cosa direste per convincerli a portare i loro figli in questa? Vi piace?”
La prima ha fatto sì con la testa, ha sorriso, ha aggiunto: “A me piace.”
La seconda, seria: “Anche a me piace.”
La terza, gli occhi vitrei: “A me piace.”
“Dunque, vi piace. Ma vi piace soltanto? Se poteste trovare un qualcosa che non va?”
“No, niente” ha detto la prima.
“No, niente” ha detto la seconda.
La terza si è illuminata: “Forse la palestra è un po’ troppo piccola”.
La coordinatrice ha sospirato e poi, tra i denti: “Bene, grazie. Qui sono presenti i membri della gestione della cooperativa: avete preso nota, vero?”
La scuola non la fanno solo le direttrici e le persone autorevoli. Ma quanto al fatto di esporre dei bambini in questo modo per motivi di marketing… Maria, tu che ne pensi?